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Le trame hanno uno stretto rapporto con la realtà
Conclusa la 77esima edizione, vi raccontiamo alcuni film che ci hanno particolarmente colpito
Nicola Falcinella
Da sempre i film del Festival di Locarno hanno un rapporto stretto con la realtà. Lo ha confermato la 77esima edizione, conclusa sabato a giornale già chiuso, con titoli che, nei casi migliori, esplorano l’attualità con acutezza, riuscendo a spiegarne alcuni meccanismi anche meglio di un saggio.
Transamazonia della tedesca Pia Marais (nella foto) è stato uno dei lungometraggi più classici e narrativi in concorso
È il caso di Youth (Hard Times) del cinese Wang Bing, già vincitore del Pardo d’oro nel 2017 per La signora Fang e per questa ragione probabilmente tagliato fuori dal premio principale. È il secondo tassello di una trilogia la cui prima parte Spring è stata in concorso a Cannes e la terza, Homecoming, sarà a Venezia tra poche settimane. Cinque anni circa di riprese, dal 2014 al 2019, nei laboratori tessili della città di Zhili, nell’industrializzata provincia orientale di Zhejiang, per una decina di ore complessive di film. Ne esce il ritratto della gioventù del grande Paese orientale partendo dai ballatoi di palazzoni anonimi dove si affacciano i piccoli locali trasformati in fabbriche distinte solo da un numero, dedite alla confezione di capi di abbigliamento.
Wang Bing mostra i lavoratori migranti interni, in maggioranza provenienti dalla regione di Anhui, che riposano poche ore negli stessi spazi in cui lavorano, costretti a orari sfiancanti per produrre a cottimo il più possibile. A volte non sono pagati da padroni che trovano qualche cavillo oppure picchiano chi sollecita il dovuto o fuggono lasciando debiti e abbandonando i macchinari. Il documentario osserva i tentativi dei lavoratori di organizzarsi, di contrattare paghe o tempi di lavoro migliori, senza riuscire neppure a trovare un accordo tra loro: nell’assenza di qualsiasi forma sindacale, gli imprenditori opportunisti prosperano.
Transamazonia della tedesca Pia Marais (nella foto) ci porta in Sudamerica. Il suo è uno dei lungometraggi più classici e narrativi in concorso, una pellicola pronta quanto meno per il Pardo Verde e forse di più. A un disastro aereo nell’Amazzonia brasiliana è sopravvissuta solo la piccola Rebecca, che nove anni dopo continua a vivere nella zona con il padre missionario battista. Mentre la giovane ha fama di guaritrice, i taglialegna, privi di permessi, abbattono alberi nella riserva indigena facendosi forti con uomini armati che sparano anche sui minorenni. Mentre sale la rivolta dei nativi per difendere le loro terre e le loro usanze, la giovane viene contattata dal proprietario della segheria per salvare sua moglie in coma. Marais, già in gara a Locarno, tiene bene insieme tre linee narrative (la deforestazione e i diritti degli indigeni, l’aspetto miracolistico e religioso, la vicenda familiare e un rapporto figlia padre in evoluzione) e lo fa in maniera mai scontata e con un tono per nulla predicatorio.
Due opere con parecchie chance di premio importante sono il franco-libanese The Green Line di Sylvie Ballyot e l’austriaco Mond – Moon di Kurwin Ayub. Due film di donne, rispettivamente al primo e al secondo film, sul Medio Oriente, le sue vicende recenti e la condizione femminile. La linea verde è quella che ha diviso Beirut Ovest (a prevalenza musulmana) ed Est (a maggioranza cristiana) per un quindicennio a partire dal 1975. La documentarista segue la ricerca di Fida, nata nei mesi dello scoppio del conflitto, per capire meglio quanto successe durante la sua infanzia e adolescenza, incontrando alcuni reduci di quelle battaglie che allora le parevano «giganti».
È un documentario con elementi di animazione sulla falsariga de L’immagine mancante (2013) del cambogiano Rithy Panh. Ballyot cerca di compiere una riflessione sulla guerra e la riconciliazione, senza riuscire a rinunciare ad alcuni passaggi che appesantiscono e allungano. L’operazione ricorda tanti lavori analoghi sulla guerra in Jugoslavia (un’ex infermiera fa il paragone con l’assedio di Sarajevo), ma Fida eccede in ingenuità nel porsi davanti alla guerra.
Mond invece è un thriller con un punto di partenza sportivo: campionessa di arti marziali a fine carriera, Sarah è contattata da un uomo misterioso per recarsi in Giordania ad allenare le sue tre sorelle. In una grande villa fuori città, senza connessione internet e costretta a firmare una clausola di riservatezza, l’atleta troverà un trio di adolescenti segregate in casa, poco interessate allo sport e più alla libertà. Un film efficace fino ai troppi finali, quando forse avrebbe richiesto un taglio più netto o uno sviluppo maggiore, ma una conferma per la regista fattasi conoscere per le ragazze curde di Sonne.
Meritevole anche il più sperimentale Fogo do vento della portoghese Marta Mateus.
La questione delle donne torna nel thriller iraniano The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof, già Premio della giuria a Cannes e presentato in Piazza Grande. Una metafora chiara e una denuncia forte del regime di Teheran, tra dramma sociale e film di genere con tocco alla Hitchcock.