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Il cinema di Alfonso Cuarón
Un ritratto del regista messicano, due volte premio Oscar, che in Piazza Grande ha ricevuto il Lifetime Achievement Award
Nicola Mazzi
Tra le star acclamate a Locarno in questa edizione c’è stato anche Alfonso Cuarón (nella foto), un tipo a cui piace parlare. Lo abbiamo notato assistendo alla sua affollata masterclass al Locarno Film Festival, dopo che la sera precedente aveva ricevuto il Lifetime Achievement Award in Piazza Grande. Sotto la canicola di un pomeriggio d’agosto il regista messicano (due volte premio Oscar per Gravity e Roma) ha parlato della sua carriera e degli alti e bassi che l’hanno contraddistinta.
Sollecitato dal critico Manlio Gomarasca, Cuarón ha anzitutto ricordato le sue origini. «Provengo da una famiglia medio borghese che però non si è mai interessata al cinema. Mia madre era chimica e mio padre medico, ma io, da quando ho memoria, sono sempre stato attirato dal cinema. Mi guardavo i film in tv e appena ho potuto sono andato in sala. I primi anni, ovviamente, non riuscivo a capire i vari ruoli: il film era una cosa sola e non sapevo chi ci lavorava».
Il primo clic il regista messicano l’ha fatto con Ladri di biciclette. «Una sera quando, i miei genitori erano usciti, io e mio cugino che era da me a dormire, scivolammo nella loro stanza per vedere la televisione, sperando che ci fosse un film per adulti. Trovammo invece il film di De Sica: mi commosse come nessun altro prima. Era molto diverso da quello che avevo visto fino ad allora. E insieme a un making of dei film di Sergio Leone che vidi in quei mesi finalmente sono riuscito a capire meglio la macchina che sta dietro a un film». Lo stesso autore ha poi ammesso di aver visto, sin da ragazzo, i classici. «A nove anni vidi i film di Godard. Compresi che erano diversi, particolari, ma allo stesso tempo mi annoiarono anche».
Il regista ha parlato anche degli inizi difficili in Messico. «Prendevo ogni lavoro che mi arrivava, anche perché sono diventato padre a vent’anni e dovevo sostenere la mia famiglia. Quindi feci di tutto: della sceneggiatura all’aiuto regia, dal microfonista al montaggio, ecc. Ho imparato il mestiere e in quegli anni ho conosciuto Emmanuel Lubezki, che noi tutti chiamiamo Chivo (tre Oscar consecutivi per la fotografia, due con Inarritu e uno con lo stesso Cuarón)».
Lo stesso Chivo è stato assistente al suo primo filmino scolastico in Super8 intitolato Vengeance Is Mine. Cuarón ricorda che voleva metterlo in commercio, ma che la scuola di cinema che frequentava aveva regole ferree e proibiva l’uso dell’inglese. Ci fu uno scontro con la dirigenza della facoltà, che non lo autorizzò e per questo motivo lasciò il corso.
Dopo alcuni lavori nel settore, con il fratello scrisse il primo film. «Ci ho messo molto tempo prima di decidermi. Ero insicuro, soprattutto nella scrittura, ma vedevo che i miei ex compagni di studi stavano già realizzando le loro opere e così mi lanciai». Il suo primo lavoro fu una commedia intitolata Uno per tutte ed ottenne un grande successo in patria, anche perché il genere non era molto sviluppato e fu visto come una bella novità. «Ma quella è stata anche la prima volta che Harvey Weinstein, con la sua casa di produzione, mi ha fregato perché lo ha acquistato per gli USA ma non lo ha mai distribuito».
Il grande salto Alfonso Cuarón lo ha fatto grazie a Sydney Pollack che lo chiamò a Hollywood per dirigere una puntata della serie Fallen Angels. «Fu la mia salvezza, quella serie mi ha permesso di pagare i debiti che avevo, ma allo stesso tempo fui terrorizzato perché dovevo lavorare insieme alle star di Hollywood e avevo solo sei giorni per girare la puntata. Per fortuna Alan Rickman e Laura Dern furono molto comprensivi e dopo un primo giorno disastroso mi chiamarono e mi dissero che erano a mia disposizione e che dovevo guidarli. Da quel momento cambiò tutto e facemmo un buon lavoro nei tempi previsti».
Il primo vero film in America fu Una piccola principessa, una favola che realizzò con il suo fido Chivo e di cui ebbe l’appoggio degli studios. Mentre del successivo non ha un grande ricordo: «Non ho mai capito del tutto la storia di Paradiso Perduto e quindi mi sono concentrato sulla forma, ma alla fine ne è uscito un lavoro che non mi convince del tutto».
Per ritrovare l’ispirazione il regista tornò nel suo paese natale dove girò uno dei suoi classici: Y tu mamá también. «Per me non fu solo un esercizio formale, ma un lavoro a tutto tondo su due adolescenti messicani, amici per la pelle, alle prese con la scoperta del sesso e della propria personalità». Per lui quella fu una nuova rinascita che gli permise di fare il salto nel mondo del fantasy con Harry Potter e Il prigioniero di Azkaban. «Guillermo Del Toro mi convinse a non scartare a priori la regia di quel film: mi prese a male parole, e un messicano ne ha molte, quando gli ho detto di non aver letto i libri. Grazie a lui l’ho fatto e ho capito che era una storia formativa che esplorava le diverse classi sociali. E devo dire che girarlo fu un grande piacere così come lo fu vivere a Londra in quei mesi».
Con I Figli degli uomini (che Locarno ha riproposto in un GranRex colmo di gente) Cuarón fa ancora un altro salto. «Volevo affrontare i temi che mi stavano a cuore e che prendevano sempre più piede come quello della migrazione. Ho sentito che il mondo sarebbe cambiato in peggio, ma noi in quel momento non ci rendevamo conto perché vivevamo in una bolla di ottimismo; così ho voluto creare una realtà distopica e catastrofica».
Gli ultimi due film sono quelli degli Oscar: Gravity e Roma. «Il primo l’ho scritto con mio figlio perché volevo arrivare a un numero maggiore di ragazzi dopo il flop commerciale del precedente. E grazie al successo al botteghino – uno dei pochi perché la fantascienza a parte Star Wars non rende – posso dire che mi ha salvato la vita. Il secondo, per la prima volta, ho potuto realizzarlo con una situazione economica stabile. Ed è stato interessante a livello creativo, ma anche un elettroshock emotivo, perché ho parlato della mia infanzia. Sono andato a fondo nella mia vita e questo fatto mi ha segnato profondamente per diversi mesi».
E per il futuro? Il regista sogna di fare un horror realistico, perché da spettatore ama molto il genere. Ma intanto, dopo Locarno, l’aspetta la Mostra di Venezia dove presenterà Disclaimer, una miniserie thriller realizzata per Apple TV+.