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Lo sport e il Ceroni

/ 12/08/2024
Marco Züblin

Qualche anima bella ha riesumato il concetto di «tregua olimpica» per postulare la sospensione delle ostilità al tempo dei Giochi. Inutile, gli ammazzamenti continuano, in barba a ogni arcaico costume e a ogni rinnovato appello. Che il certame agonistico possa calmare, altrove, qualche bollente spirito è ormai una illusione.

Non solo: nella narrazione mediatica, la gara sportiva diventa – nei toni, nel lessico, nella drammaturgia del racconto – una sorta di conflitto giocato a colpi di atletica sopraffazione, di scontro che non fa prigionieri. Un surrogato multicolore di guerra che diventa ancora più straniante ora che c’è la guerra vera, con morti e feriti veri, con drammi che fanno perdere il sonno. Il linguaggio dello sport è linguaggio del conflitto, della lotta, soprattutto nelle telecronache, in cui la ricerca della vittoria è spesso raccontata nelle forme della distruzione del rivale, della sopraffazione e dell’annientamento.

Molto del fascino dello sport in tivù, e molta della repulsione che in alcuni di converso suscita, deriva da come lo si racconta

È giusto? Probabilmente no, ma forse non può essere molto diverso da così. Tutta questa narrazione si nutre non solo della consueta, ansiogena e conflittuale, modalità giornalistica con la quale ogni evento viene ormai descritto, ma anche della deriva iperfisica di taluni sport, primo tra tutti il calcio (si legga quanto di ottimo ha scritto Libano Zanolari su Naufraghi nel suo articolo Il calcio ricorda di essersi separato dal rugby nel 1863), in cui il vigore atletico e l’atteggiamento minaccioso rischiano di annichilire la dimensione artistico-tecnica del gesto. Tutto questo per dire che, almeno da chi lo descrive e lo commenta, si gradirebbe un lieve abbassamento dei toni, una limatura del lessico, una sordina alla retorica guerresca, un atteggiamento meno «tifoide», il modo tale che un GP auto-moto, una partita di hockey, un incontro di calcio o una gara ciclistica non siano vissuti come roba da Orazi e Curiazi. E questo al netto di qualche esempio recente in positivo tra gli atleti (a caso: Filippo Macchi, Benedetta Pilato) che permette di riesumare valori antichi che tanto piacciono nello sport e che meriterebbero di essere vissuti anche da chi lo sport lo descrive, e da chi lo vive in poltrona.

Molto del fascino dello sport in tivù, e molta della repulsione che in alcuni di converso suscita, deriva da come lo si racconta. E qui voglio essere divisivo: da telespettatore non sempre attento, vedo però con la mestizia del naufrago e dell’orfano il momento in cui Armando Ceroni (nella foto) se ne andrà in pensione.

Come ben diceva quell’altro, da nostalgico vorrei «un podcast da 10 puntate di due ore l’una di Ceroni che commenta la vernice che si asciuga. Che non è mai stato il cosa ma il come»; appunto, il «come».

Ricordo le sue telecronache del ciclismo su pista ad un’altra edizione dei Giochi, in cui (mi) ha fatto digerire con grazia e competenza anche l’indigeribile; e le mitologiche dirette con Ferretti dal Giro e dal Tour, in cui con bella ironia ammobiliava tempi morti con spigolature di ogni genere (piace meno, anche per quanto detto sopra, la narrazione attuale un po’ retorica, da clash of the Titans).

E poi, il calcio, la Champions e la Nazionale: i molti detrattori dell’Armando, che simmetricamente lo odiano con la stessa forza del nostro affetto, gli rimproverano di non parlare del gioco ma di «altro». Hanno una visione da radiocronaca della … telecronaca, come se non si vedesse quello che sta succedendo e occorra ancora descriverlo di fino.

Ci mancherà, il Ceroni; come ci manca in generale, in questo mondo in cui lo stupidamente ovvio ci assedia e ci ferisce, qualche cosa di lieve e di ironico, una bella alzata di domestico ingegno, magari un po’ incongrua o non proprio in tema, ma che riesce a stupirci e, poi, a farci pensare.