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«Ogni prigione è un’isola a sé»
La scrittrice, giornalista e conduttrice tv Daria Bignardi racconta la sua esperienza nel mondo delle carceri
Stefano Vastano
Ma, a pensarci bene, che senso diamo a tutte le libertà che ci godiamo ogni giorno? E soprattutto, che ne sappiamo della loro privazione, dello starsene rinchiusi giorno e notte in una minuscola cella? È per questo che ho letto con interesse il bel saggio che Daria Bignardi ha dedicato al problema, sempre più esplosivo, delle carceri in Italia: Ogni prigione è un’isola, di recente pubblicato da Mondadori.
Un libro in cui la giornalista e scrittrice racconta come nasce questa sua «curiosità» per l’istituzione-carcere. E, con l’obiettività e la verve della giornalista impegnata, racconta dei suoi incontri, all’interno di vari carceri, con ex terroristi o con ergastolani, con guardie penitenziarie o direttori di carceri. «Sin da bambina, inizia a dirci Bignardi, ero curiosa del carcere di via Piangipane a Ferrara, perché il maestro ci aveva raccontato che lì era stato rinchiuso Giorgio Bassani, per noi ferraresi il dio degli scrittori. E già allora mi chiedevo: ma com’è possibile, uno scrittore in carcere? A Milano poi da anni abito in via San Vittore. Per me dunque l’attrazione del carcere è cresciuta in modo spontaneo, ma posso assicurarti che c’è un mondo di persone – chi ci lavora, gli psicologi o i volontari – che quasi non riesce più a fare a meno del carcere».
È da quest’altra prospettiva, più vicina ai problemi di chi in carcere è recluso o ci lavora, che nasce questo saggio di Bignardi spiazzante sin dal titolo. In che senso infatti il carcere è un’isola? «Per ognuno di noi, risponde lei, l’isola significa bellezza; io ad esempio appena posso torno a Linosa. Ma se vivi a lungo su un’isola, ti accorgi che ogni isola è anche una prigione. Nel titolo del libro ho un po’ giocato sul contrasto fra bellezza dell’isola e bruttezza del carcere. E sul fatto che ogni carcere è un’isola a sé». Un’isola sui generis, di cui ognuno di noi ha sicuramente paura, se non angoscia. Esiste sulla Terra un luogo più odiato del carcere? «In realtà, risponde Bignardi, da quelli che ne stanno fuori il carcere non è che sia così odiato. Anzi, molti amano che ci sia un posto dove “i cattivi”, fra virgolette, siano rinchiusi. Il carcere semmai è odiato da chi ci sta dentro, mentre il carcere “degli altri” è abbastanza amato. Tante persone ne hanno paura, persino ribrezzo. Altre invece ne hanno curiosità: io appartengo a quest’ultima categoria».
Da anni ormai, a Milano, Bignardi non solo abita nella via di San Vittore, lì dove, dal lontano 1879, c’è uno dei penitenziari più famosi d’Italia. Lei ha anche il permesso di entrarci a San Vittore perché è un «articolo 78», una delle persone cioè che promuove attività e sostegno per i detenuti, ed anche per questo conosce a fondo la realtà del sistema carcerario. «Oggi – spiega – stiamo sui 62 mila detenuti in Italia, ma i posti in carcere, esagerando, arriverebbero a 47 mila. La realtà è che se i detenuti nel 1990 erano la metà di oggi, i crimini come gli omicidi sono diminuiti radicalmente. Questo vuol dire che oggi dentro trovi una popolazione di piccoli delinquenti e spacciatori, che le carceri sono imbottite di malati e tossicodipendenti». E questa è solo la prima desolante «fotografia» di un sistema-carcere drasticamente «sovraffollato», per usare la parola così fredda con cui parliamo di penitenziari stracolmi di detenuti. Ma se proviamo ad immaginare il quotidiano di quelle celle «imbottite» di gente, «dobbiamo pensare al dolore, alla devastazione, continua Bignardi, al fatto che oggi in carcere si sta sempre peggio. A corpi ammassati in cella, ad una turca a mezzo metro dalla branda, vivere in situazioni di tortura fisica e psicologica». Questo significa il problema del «sovraffollamento». Ma non solo. «Se nelle nostre società ci sono sempre più poveri ed emarginati, anche la popolazione in carcere, continua Bignardi, sarà sempre più disgraziata. E stare sempre peggio “dentro” spinge sempre più persone a togliersi la vita». È l’altra e più creuenta realtà che purtroppo si registra sempre più di frequente in carcere: la tragedia dei suicidi in aumento.
«L’Italia nel 2022, scrive Bignardi nel suo libro, ha avuto il maggior numero di suicidi di sempre: ottantacinque». E nei primi sei mesi di quest’anno i suicidi sono già stati 54. Insieme all’altro dramma delle rivolte, sempre più violente dei detenuti, e delle reazioni a loro volta sempre più brutali delle guardie. La rivolta al carcere di Sant’Anna a Modena, ad esempio, è costata la vita a tredici detenuti. Certo, nel mondo dei politici, «il carcere, dice pragmaticamente Bignardi, non interessa molto la politica, perchè non porta voti e non smuove nessun voto». Ma al massimo spinge chi sta al potere a varare leggi sempre più repressive , come la Bossi-Fini sui migranti, e decreti che Bignardi definisce «leggi cargerogene». È con queste leggi infatti che le celle si riempiono sempre più di piccoli delinquenti, di spacciatori e tossicodipendenti. Per non parlare poi dei più recenti decreti repressivi con cui l’attuale governo a Roma sta inasprendo le pene «per reati, commenta Bignardi, compiuti da minorenni che finiscono così in carcere, quando un minorenne in carcere non dovrebbe mai entrarci». Ma il mondo del carcere, a guardarlo bene, non è solo un luogo di detenzione, ma, come ricorda Bignardi, «il carcere è una università del crimine».
Qui tocchiamo con mano il nervo più paradossale dell’istituto-carcere. E cioè le quote di recidivi, dei detenuti che, scontata la pena, tornano poi a delinquere e quindi di nuovo in galera. «Il problema della recidiva, spiega Bignardi, è eclatante, parliamo del 70, anche del 75 per cento delle persone che in carcere ci rientrano, fra l’altro entro un anno o tempi brevissimi! Chi entra lì dentro una volta, quando poi esce inizia a delinquere in modo più professionale». Ed ecco il ciclo di quella paradossale spirale di violenza che si innesca in «isole carcerarie» che, al loro interno, alimentano forme di violenza e suicidi. E, all’esterno, riproducono altri crimini e delinquenza. Interessanti nel saggio anche le pagine in cui l’autrice racconta le visite in carcere allo scrittore e politico Adriano Sofri, il nonno di sua figlia Emilia. O le sue discussioni con Luigi Pagano, per anni direttore del carcere milanese di San Vittore. Il bello, e Bignardi ne parla ampiamente nel suo saggio, è che anche in Italia esistono rare «isole» in cui i detenuti accedono a corsi professionali, a programmi di reinserimento quindi che, una volta fuori, li aiutano a reinserirsi nella società.
Ne è un esempio il carcere di Bollate, «una realtà unica nel panorama delle nostre carceri, dice Bignardi, ed è quella che somiglia di più a ciò che il carcere dovrebbe essere secondo la nostra Costituzione. La loro cooperativa sociale Bee.4 altre menti è un Call center avanzato, un posto persino bello e dove i detenuti sono formati a lavori qualificati». Non si tratta di utopie né di iniziative fini a sé stesse. Una volta attivati i programmi di qualificazione, la curva dei recidivi scende infatti al 20 per cento dei detenuti. È questa semplice realtà – più corsi di formazione, meno suicidi, meno recidivi e dunque carceri meno affollate – che porta Bignardi a dire che «così com’è il carcere è profondamente inutile, e ci fa perdere molto tempo e denaro». Peggio, così com’è oggi il carcere è un istituto non solo inutile, «ma un sistema profondamente classista. In carcere oggi trovi soprattutto chi ha meno mezzi, meno istruzione e più fragilità, e magari non parla la nostra lingua e non sa neanche dove si trova». Nel suo viaggio Bignardi ha incontrato guardie e direttori, psicologi e volontari che fanno bene il loro lavoro. Ma, conclude, «il mondo delle carceri e le sue norme non possono dipendere da alcuni eroi, con un senso dello Stato o della giustizia». Sì, le carceri sono isole nel nostro sistema sociale, ma isole che a quanto pare non funzionano. O solo come discariche sociali, per punire i più deboli. E riprodurre delinquenti sempre più professionali.