Asperiores, tenetur, blanditiis, quaerat odit ex exercitationem pariatur quibusdam veritatis quisquam laboriosam esse beatae hic perferendis velit deserunt soluta iste repellendus officia in neque veniam debitis placeat quo unde reprehenderit eum facilis vitae. Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipisicing elit. Nihil, reprehenderit!
Una passerella sul vuoto
Tra il ludico e il dilettevole: a volte una gita in montagna e un sentiero scosceso possono essere il punto di partenza per una filosofia di vita
Sebastiano Caroni
Quando ero bambino, nelle vacanze estive trascorrevo con i miei cugini lunghi periodi in montagna, in una casa di vacanza all’entrata dei Monti di Motti, un piccolo agglomerato di case situato sopra Gordola a 1000 metri dal livello del mare, raggiungibile in automobile lungo una strada costruita negli anni della Prima guerra mondiale. Oltre a offrire un insperato ristoro dall’afa che imperversa in pianura, e la comodità di un grotto ben frequentato, Monti di Motti vanta un’invidiabile vista panoramica sulla Valle Verzasca, sul Piano di Magadino, sul Monte Tamaro e, in modo particolare, sul Lago Maggiore. Monti di Motti è anche il punto di partenza per una serie di escursioni: da quelle ai monti circostanti, relativamente poco impegnative, a tragitti più lunghi e esigenti come quello che porta alla Capanna Borgna (1.919 m) o, ancora più su, al Pizzo Vogorno (2442 m).
Una destinazione piuttosto nota è il Sassariente che, con il suo cucuzzolo roccioso e la sua grande croce in acciaio a 1767 metri di altezza, svetta sopra il comune di Cugnasco.
Dai Monti di Motti, la salita al Sassariente è sicuramente impegnativa, ma non proibitiva. Tuttavia, l’ultimo tratto è piuttosto scosceso e, per giungere in vetta, occorre passare da un sistema di passerelle fissate alla roccia e, all’occorrenza, aiutarsi con le catene infisse alla parete per garantirsi una presa sicura. Ricordo ancora quando, all’età di dieci anni, con i cugini mi avventurai per la prima volta al Sassariente. Allora non sospettavo che la scalata alla vetta avrebbe comportato un passaggio così delicato, tanto più che all’epoca al posto delle passerelle c’erano appigli in metallo e corde piuttosto logore. Così, quando mi ritrovai nel punto in cui finiva il sentiero, e cominciavano gli appigli sulla roccia, mi bloccai. La vertigine del vuoto mi impediva di proseguire e, molto a malincuore, lasciai che i miei cugini vi si avventurassero senza di me. Non fu certo una decisione facile da prendere, e non ricordo bene quali emozioni rimuginai quel giorno, e neppure se quell’esperienza mi aveva, nei giorni successivi, causato sconforto o rammarico. Ma, a lungo andare, credo che quell’episodio non mi turbò molto, tanto che oggi lo considero un normale incidente di percorso accaduto nella mia infanzia.
Con la progressiva uscita dall’infanzia, poi, i soggiorni estivi ai Monti di Motti si fecero più radi, e non ci fu più occasione per tornare al Sassariente. Se i ricordi non mi ingannano, fu solo diversi anni dopo, da adulto, che riprovai la salita, arrivando in cima senza troppi patemi d’animo. Ricordo però che, nel lungo periodo che intercorse fra quella prima esperienza legata all’infanzia e il mio successivo approdo sulla vetta, ci fu un momento in cui ripensai a quella prima volta e all’arresto di fronte agli appigli in metallo.
Mi trovavo a Vienna, dove ho vissuto per un anno come studente Erasmus; comodamente installato su una poltrona di un caffè, stavo leggendo L’être et le néant (L’essere e il nulla) di Jean-Paul Sartre per un corso di filosofia che frequentavo all’università locale. C’è un passaggio, in quel voluminoso e densissimo saggio, in cui Sartre, per illustrare il senso di angoscia che ogni tanto si insinua nella trama della nostra esistenza pervadendo la nostra coscienza, fa riferimento all’esperienza di un escursionista. L’esempio mi riportò in qualche modo alla mia infanzia: «La vertigine si manifesta con la paura» scrive Sartre. «Sono su un sentiero stretto senza parapetto, costeggiando un precipizio. Il precipizio mi appare come qualcosa da evitare; rappresenta un pericolo mortale. (…) posso scivolare su una roccia e cadere nell’abisso, la terra friabile del sentiero può cedere sotto i miei piedi».
Sembra il racconto di un sogno, ma non lo è. Il passaggio fa riferimento alla paura del vuoto, piuttosto comune quando ci si espone a delle alture e, come in questo caso, si cammina su un sentiero stretto che richiede tutta la nostra attenzione. Simili situazioni sono relativamente frequenti in alta montagna, e può capitare che, pur senza bloccarsi, lungo un sentiero ripido si avverta un principio di paura. Nella misura in cui invita alla prudenza, questo accenno di paura oltre che normale può essere anche salutare.
Ora però abbandoniamo la digressione per tornare a noi, ai nostri sentieri e alle nostre montagne, ai Monti di Motti, e al Sassariente. Nel frattempo ho la fortuna di potermi dedicare a fondo, durante l’estate, a interessi quali la lettura, i viaggi e, appunto, la montagna. Non è quindi un caso se, negli ultimi anni, ho avuto modo di passare del tempo prezioso, fra maratone di lettura e passeggiate nei boschi, proprio ai Monti di Motti. Mi è capitato anche, un paio di volte, di salire sul Sassariente; anche di recente, quando nel primo pomeriggio di una giornata infrasettimanale mi sono avviato, calcolando i tempi necessari per andare e tornare in tutta tranquillità, lungo il sentiero che parte dai Monti di Motti.
Sul sentiero non ho incontrato nessuno: forse perché era un giorno infrasettimanale, o forse era il momento della giornata (spesso chi intraprende delle escursioni approfitta delle ore mattutine), ma quando arrivai ai piedi della vetta era come se, fra le molte impressioni, avvertivo anche un inedito senso di solitudine. Per questo la salita mi sembrò particolarmente impegnativa sul piano psicologico, ma non solo: quella solitudine, così comune a chi affronta la montagna in solitaria, mi aveva reso vulnerabile, tanto che nell’avvicinarmi alle passerelle sospese, per un attimo provai qualcosa di simile a quello che avevo provavo quel giorno di tanti anni fa.
Questa volta però non mi arresi alla paura, non mi fermai, ma a posteriori mi resi conto di una cosa: che se su quella montagna ero salito tre o quattro volte negli ultimi dieci anni, quella poteva anche essere l’ultima volta. Non era colpa dell’accenno di paura, e non era neanche colpa della stanchezza accumulata lungo il sentiero. C’era dell’altro. Era come se quel senso di solitudine mi avesse reso consapevole che l’idea secondo cui la nostra vita, il nostro presente e il nostro futuro sono sotto il nostro controllo, per quanto possa essere utile e importante è anche, in fondo, illusoria. E che, forse, proprio per questo, non ero mai diventato completamente immune da quella paura che anni prima mi aveva impedito di continuare. Una presa di coscienza, una lucida consapevolezza: ecco cosa era successo.
Era successo che l’escursionista aveva incrociato, sulla cima del Sassariente, il filosofo. E allora non era neanche tanto vero che, quel pomeriggio d’estate, lungo quel tragitto, l’escursionista era solo, che non c’erano altri viandanti.