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Bibliografia

Giorgio Agamben, Il corpo della lingua. Esperruquancluzelubelouzerirelu, Einaudi, Torino, 2024


La lingua dei giganti

Giorgio Agamben ci parla di corpi enormi che si esprimono in modo smisurato
/ 29/07/2024
Stefano Vassere

François Rabelais rappresenta il riscatto dall’ingiusto trattamento che vede i classici della letteratura e in questo caso di quella francese ritenuti difficili, fuori tempo e dunque probabilmente inavvicinabili. Figura suprema del Rinascimento europeo, egli può essere senza dubbio considerato un superclassico, che scrive mezzo millennio fa. Eppure, provate a sentire questa descrizione del gigante Pantagruel: «È così enorme che non può venire alla luce senza soffocare la madre Badebec, benché dal suo ventre fossero usciti prima di lui sessantotto mulattieri, ciascuno col suo mulo carico di sale, e nove dromedari con una soma stipata di prosciutti e lingue di bue affumicate, per non parlare di sette cammelli carichi di anguille e venticinque carretti pieni di porri, agli, cipolle e cipollotti».

Ora, nessuno potrebbe negare che questo passo sia ben dentro le nostre logiche letterarie, accessibile ai lettori medi di questi nostri tempi, decisamente divertente. Anzi, ci si potrebbe spingere molto avanti e pensare che i più coraggiosi potrebbero addirittura leggere i brani di Rabelais ai bambini, la sera, invece di talune noiose favole moderne, aspettando che si addormentino. Il Quarto Libro del Gargantua e Pantagruel porta il noto episodio delle parole che nei freddi inverni di «qualche luogo» congelano, assumendo consistenza fisica. Al tepore delle mani fondono come neve, ma è proprio lì che si libera il loro suono: «hin, hin, hin, hin, his, ticque, torche, lorgne, brededin, brededac». Panurge chiede a Pantagruel di regalargli un’altra manciata di parole gelate, quest’ultimo ribatte che «regalare parole è atto da innamorati e vendere parole è atto da avvocati». Dunque, i classici sono spesso più vicini a noi di quanto si possa pensare. Buonanotte, bambini!

Questo Il corpo della lingua di Giorgio Agamben ha anche un sottotitolo, che il correttore automatico si ostina (e come dargli torto?) a sottolineare di rosso: Esperruquancluzelubelouzerirelu. È l’espressione della lingua smisurata dei giganti, che si affianca alle dimensioni senza limite tangibile del loro corpo; perché se il gigante è la misura del mondo, e non qualcosa che si muove nello spazio ma lo spazio stesso nella sua interezza, la sua lingua non può che essere espressione esagerata di questa fisicità totale. Rabelais, ci dice Agamben, ha imparato da un italiano mantovano, Teofilo Folengo, la descrizione del corpo della lingua, dotando Pantagruel di un idioma «immenso quanto il suo corpo». Perché la lingua ha in questa seducente realtà una sua fisicità e un suo corpo al di là e al di qua del suo significato; altrimenti il gigante non potrebbe raccogliere le parole a piene mani sul ponte della nave nell’intento di conservarle sott’olio, come la neve. Fabbriche a pieno regime di parole ipertrofiche, sgangherate reinvenzioni di significato, caricature lessicali, parole che si percepiscono con i sensi primari, il tatto, il profumo, corpi giganteschi fatti di queste stesse parole. La lingua di un gigante è «un’infinità di vocaboli serialmente accozzati, che non si separano come gli organi di un corpo per formare un unico organismo, ma che piuttosto, come avviene nel loro corpo sconfinato, abdicano alla loro consistenza singolare per moltiplicarsi e obliterarsi in un complesso continuo e virtualmente illimitato».

Di commovente bellezza è infine l’apparato di immagini che accompagnano questo testo: sono riproduzioni dall’originale del Baldo di Teofilo Folengo nell’edizione di Toscolano del Garda del 1521 e dalla serie di più di cento incisioni del 1565 che i più attribuiscono allo stesso Rabelais. Che matti, questi illustratori: in copertina c’è un essere che consiste del suo solo viso con gambe e braccia corte, più avanti c’è un altro che ha un membro a forma di capra e una testa coperta di un guscio d’uovo, e ancora più in là un individuo con la testa di elefante e la proboscide dotata di una rotella che gli permette di scorrere senza problemi al suolo; lascia magnificamente interdetti quello con la testa come un panettone, con una sorta di piccolo vulcano in cima trafitto da un coltello. Che bella follia! E che attualità! Forse solo i bambini, da quella loro intatta, ostinata e inquietante propensione al mistero, riescono a dirci qualcosa.

«Abitano questo paese i popoli grammatici e la stirpe dei pedagoghi, c’è il nome insieme al verbo, al pronome e a loro seguito tutta la restante brigata, gli avverbi huc, illuc, istud, hinc, inde, deorsum atque sinistrorum cum tota gente cuiorum. Non mancano i concetti ens, quiditas, acidens, substantia, cum solegismo, e tutta questa turba assale l’estranea combriccola come le mosche si gettano sul burro o sulla ricotta».