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Napoli letteraria, sensuale e sorniona
Nel suo Il Sole non bagna Napoli Antonella Cilento ci accompagna in un viaggio di profondità e di vette
Marta Morazzoni
Napoli è una città difficile. Io, per esempio, sono tra quelli che, sul lungomare di Chiaia, alzano gli occhi verso la collina del Vomero e pensano alla fortuna di Goethe che l’ha vista in ben altra veste, nel verde di orti e giardini. Io vedo case e case, un ammasso edilizio a volte malridotto, molto spesso abusivo, che soffoca il respiro. Capisco Giorgio Manganelli che, arrivato qui, si guardò intorno e, spaventato, salì sul primo treno che tornava a Milano. E allora mi affido agli occhi di una napoletana che da tempo e con la pazienza apre gli occhi miei e di tutti su quello che non sappiamo vedere.
Lo sguardo di Antonella Cilento ne Il sole non bagna Napoli, (il titolo è una citazione d’affetto) è quello stregato da luci e ombre di questa terra tipico di chi la conosce con lucidità e passione e ne sa la misura. Anch’io sto imparando che Napoli chiede tempo e sapienza nell’affronto delle sue quattro dimensioni: altezza, larghezza, profondità. La quarta dimensione è l’affetto. Sembrerebbe la più pericolosa, se non fosse che in questo libro è accompagnata dalla capacità critica e quindi dalla voce della ragione che aiuta a filtrare le emozioni.
«Napoli è un lento viaggio di profondità e di vette» scrive Antonella Cilento, preannunciando l’itinerario che ci propone, e non è una metafora: penso alla pancia del Vesuvio dentro cui ribolle il magma (nella foto si vede sullo sfondo) che agita anche i Campi Flegrei, penso alla vertigine di luce del Cristo alla colonna del Caravaggio e il rosso e l’oro della Maddalena del Masaccio a Capodimonte.
Riconosco i colori che accendono il golfo visto da Sant’Elmo, e per contro l’ombra dei vicoli dove si può camminare a qualsiasi ora del giorno senza essere disturbati dalla prepotenza del sole. A proposito! Esiste una guida che spiega come percorrere la città al riparo dalla sua luminosa ferocia. Esiste, ma dove trovarla? Chi l’ha scritta? Si chiamerebbe (il condizionale è necessario) Napoli senza sole, ne parla anche Alexandre Dumas, ma chi ha mai avuto tra le mani questo libro? Chi l’ha utilizzato? Sembra un gioco di immaginazione, una storia degna di Borges, suggerisce Antonella Cilento, e in questo modo lascia che lieviti la leggenda, si muova la fantasia intorno a suggestioni che la realtà non sa smentire, e forse non vuole smentirle! Sono dettagli che dicono quanto sia difficile afferrare in una sola definizione la città che è diventata mitologica attraverso la sua gente, attraverso lo sguardo di artisti di ogni genere e tempo, che l’hanno utilizzata come scenario delle loro invenzioni.
Ma lasciamo sbiadire il colore facile del folclore e teniamoci alla realtà che ci passa sotto gli occhi, se ci addentriamo nel dedalo di vie e piazze a cui l’autrice ci introduce con affetto e ironia, carattere quest’ultimo imprescindibile nello spirito partenopeo e necessario per capire il luogo in cui gli opposti armonizzano, tragico e comico coabitano. Ho negli occhi la maschera incavata e nell’orecchio il timbro della voce di Eduardo nel finale di Napoli milionaria: «Adda passà a nuttata». Fatalismo, fiducia, filosofia di vita: tutto sta in questo magma antropologico che si muove tra letteratura e vita, tra i palazzi signorili e i vicoli di Spaccanapoli. È naturale che mito e storia nella prosa di Antonella Cilento si facciano largo e abitino la città: Napoli nasce prima di Micene. E per inciso Micene rinasce grazie a Napoli. Se non fossero cominciati, pur nell’imperizia entusiasta dei ricercatori, gli scavi di Pompei e Ercolano, se non fosse stato per Giuseppe Fiorelli, il primo a muoversi metodicamente alla ricerca delle città sepolte, forse Schliemann non si sarebbe avventurato alla scoperta di Troia prima, di Micene e Argo poi. È un’interdipendenza fatta di suggestioni, ma c’è qualcosa di vero.
Verissime e certe invece le tante testimonianze, citate dall’autrice, di scrittori, studiosi, artisti che sono passati di qui e hanno cercato di carpirne il segreto, o si sono arresi alla sensualità sorniona (possibile che esista questo ossimoro?) della terra tra cielo e mare, protetta da un castello che si regge su un uovo! Leggende e storia, verrebbe da dire storie, senza che ci sia alcunché di denigratorio nell’uso del plurale. Napoli ne ha viste e vissute tante. La città colta di Roberto d’Angiò, amatissima anche dall’imperatore Carlo V, che circa un secolo dopo si ribella agli spagnoli con Masaniello, per essere poi punita – vox populi – dalla peste, quella secentesca che affratella tragicamente il sud e il nord dell’Italia; Napoli alimenta il sogno di Murat di farla capitale del suo regno, un regno senza fortuna. E prima, a proposito di storie, il Boccaccio, che la amava immensamente, vi ambienta il suo Andreuccio da Perugia che qui per mille peripezie, tra un cesso e una tomba, trova la ricchezza. Sì, Boccaccio la amò davvero: ci arrivò a 14 anni, al seguito del padre funzionario della Banca dei Bardi e Peruzzi, e lì si istallò respirando a pieni polmoni l’aura vitale (memoria di Petrarca?) della città, lì si innamorò di Fiammetta che vide la prima volta nella chiesa di San Lorenzo Maggiore. Cerco di andarci, tutte le volte che capito a Napoli, in memoria del padre di tutti i racconti che qui ebbe il suo momento di pienezza.
Se vogliamo seguire il filo d’oro delle narrazioni e dei narratori, questa città non è seconda a nessuno: l’elenco dei suoi scrittori qui chiamati in causa è lungo: da Marotta a La Capria, a Fabrizia Remondino, alla Ortese, che forse è stata stilisticamente la più stregante nel gioco dell’invenzione. Tra tutti quelli che, sedotti dall’aria inquietante della città, dalla sua magnificenza e dall’altrettanto grande miseria, a Napoli hanno ambientato le loro storie è singolare il caso di E.T.A. Hoffmann che non la vide mai, ma ne fece lo scenario di una sua visione oscura e torbida. Mi viene però in mente che la fascinazione stregonesca di questo luogo è caduta anche su un milanese, perché qui Emilio De Marchi ambienta il suo giallo Il cappello del prete, un libro ingiustamente dimenticato e una perla di luce nera (un altro ossimoro) nella nebbia padana dello scrittore verista.
Infine una riflessione sullo stile dell’autrice modulato sulle sfumature della sua città, nelle pieghe del linguaggio ora coltissimo ora dialettale (e il dialetto racconta di un’altra e non meno profonda cultura), come nella conoscenza accurata e affettuosa della topografia e di tutto quello che angoli, vicoli, scalette e ipogei raccontano del passato. Occhi e orecchie aperti e ricettivi, per questo le voci che si rincorrono nelle strade o echeggiano nei palazzi tornano puntuali sulla pagina, dove l’elaborazione della scrittura si fonde con la forza dell’oralità: ne sentiamo «scritte» le cadenze riportate con naturalezza, e sono il segno di innata musicalità oltre che della capacità di conservazione del patrimonio linguistico che ogni dialetto porta con sé.
Che nel bene e nel male Antonella Cilento ami questa sua Napoli non c’è dubbio, non c’è dubbio che ce ne restituisca il calore e i colori, quella sintesi di luce e tenebra cui Manganelli avrebbe dovuto dare il tempo di manifestarsi.