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L'arte radicale e introspettiva di Ben Vautier
Ritratto dell’artista franco-svizzero Ben Vautier che ci ha lasciati qualche tempo fa
Elio Schenini
Nel pomeriggio del cinque giugno scorso la notizia che quella mattina l’artista franco-svizzero Ben Vautier, in arte Ben, si era tolto la vita con un colpo di pistola nella sua casa di Nizza ha cominciato a rimbalzare da un sito d’informazione all’altro. Poche ore prima, alle tre di notte, la moglie, Annie Baricalla, con la quale Ben era sposato dal 1964, era deceduta a causa di un ictus di cui era stata vittima nei giorni precedenti.
L’atto con cui Ben ha deciso di porre fine alla propria esistenza, se da un lato ha rivelato a tutti l’indissolubile rapporto simbiotico che lo legava da ormai sessant’anni alla sua compagna, senza la quale non ha potuto e non ha voluto continuare a vivere, dall’altro ha suggellato un percorso che dalla fine degli anni Cinquanta si è snodato con estrema coerenza lungo il confine impercettibile che separa arte e vita.
A dispetto della leggerezza giocosa e del disordine caotico che sembrano improntare la sua opera, Ben era infatti un artista di un rigore ossessivo e di una costanza quasi maniacale. Il suo gesto non può non richiamare alla memoria la performance realizzata nei primi anni Sessanta, Me tirer une balle dans la tête, in cui l’artista mimava l’atto. Una di quelle azioni provocatorie che ne fanno un antesignano di molte delle cose che si sarebbero viste nei decenni successivi e di cui, in un libro del 2014 dedicato alla sua attività performativa di quel periodo, aveva sibillinamente ribadito l’attualità, commentandola con queste scarne parole: «progetto in corso» (adesso è chiaro che non si trattava di una di quelle boutade ironiche a cui ci aveva spesso abituati).
Del resto Ben l’aveva dichiarato fin dal 1961 con la consueta sintesi epigrammatica per la quale è diventato giustamente famoso: mourir est une oeuvre d’art. E in effetti per lui, che ancora nel 2009 ad artisti e scrittori morti suicidi, quali Pollock, Rothko, Virginia Woolf, Diane Arbus e Guy Debord, aveva dedicato una serie di lavori, quella attorno al tema è stata una riflessione costante. Una riflessione alla fine tradotta in atto che getta una luce diversa su tutta la sua opera, sottraendola definitivamente alle categorie del burlesco e della farsa in cui una visione superficiale e frettolosa l’ha spesso confinata. Quanto a lui questo desse fastidio lo si può intuire anche da alcune interviste disponibili in rete, in cui era costretto a ribadire che, al di là dello humor e dell’ironia che la caratterizzano, la sua opera nasceva nel segno della radicalità, dell’introspezione e dell’autoanalisi.
Il percorso artistico di Ben è strettamente legato a Nizza, la città in cui si era trasferito alla fine degli anni Quaranta con la madre, che apparteneva a una ricca famiglia francese, dopo che quest’ultima si era separata dal padre, che era invece originario del Canton Vaud. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, il Magasin – un piccolo negozio di dischi usati che Ben aveva trasformato ben presto in una vera e propria opera d’arte e che dal 1975, dopo essere stato smontato e rimontato, fa parte della collezione del Centre Pompidou di Parigi – era diventato il luogo di ritrovo per tutta quella serie di esperienze all’incrocio tra Nouveau Réalisme e Fluxus che vanno sotto il nome di École de Nice. Oltre a Ben, gli artisti che ne facevano parte erano Yves Klein, Arman, Martial Raysse, George Brecht e Robert Filliou, ossia alcuni dei principali esponenti di quella generazione che per prima nell’Europa del secondo dopoguerra ha cercato di fare i conti con l’ingombrante lascito duchampiano. Come affermava Ben, il gesto di Duchamp, che nel 1914 aveva preso un oggetto qualsiasi (il famoso scolabottiglie) e l’aveva trasformato in arte semplicemente designandolo come tale, è stato l’atto fondativo dell’arte contemporanea.
Ma come la celebre porta nello studio di Duchamp al numero 11 di Rue Larrey a Parigi che aprendosi su un locale ne chiudeva un altro, nel momento stesso in cui inaugurava questo nuovo corso dell’arte, il readymade finiva per rinchiudere l’arte contemporanea in un cul-de-sac o, come amava dire Ben, in un buco nero in cui tutto veniva attratto e nulla poteva più uscire. È questa sfida che Ben e gli artisti di Fluxus hanno assunto su di loro, spingendo l’intuizione di Duchamp fino alle sue estreme conseguenze: non solo ogni oggetto poteva diventare arte (come recita la sua frase nell’immagine), ma anche ogni attitudine, ogni gesto. In questo modo ogni distinzione tra arte e vita veniva a cadere e l’artista poteva appropriarsi di qualsiasi cosa. Ed è esattamente quello che fece Ben nei primi anni Sessanta quando si mise a firmare di tutto, dalle uova alla linea dell’orizzonte. Ma se tutto è arte, allora nulla è più arte. Di questo Ben era perfettamente consapevole e attorno a questo paradosso ha continuato ad arrovellarsi, convinto che non si potesse più tornare indietro, ma che allo stesso tempo occorresse trovare una strada per andare oltre Duchamp.
Il suo è stato un incessante sforzo di dire sempre la verità, anche quando questa poteva risultare sgradevole, a partire da una scepsi sistematica da antico filosofo greco. Uno sforzo che ha preso corpo nei suoi celebri quadri con il fondo nero e le scritte bianche vergate con calligrafia infantile, che di volta in volta demistificano, provocano, invitano a riflettere, denunciano, svelano. Le sue scritte erano il frutto di un pensiero torrenziale e un’attività teorica infaticabile che nel web aveva trovato un luogo ideale in cui espandersi e che l’avevano fatto conoscere al grande pubblico anche per le polemiche che a volte avevano suscitato. Come non ricordare, ad esempio, l’infuocato dibattito originato dalla scritta Suiza no existe che campeggiava nel padiglione svizzero all’esposizione universale di Siviglia del 1992.
Ma fin dall’inizio è stata soprattutto l’arte stessa il soggetto che Ben amava interrogare e mettere in discussione, a partire da quella volta in cui si era presentato nelle strade di Nizza con un cartello al collo che recitava: regardez-moi cela suffit. A dire che l’arte, qualsiasi essa sia, nasce sempre dall’impulso di un individuo di affermare il proprio io. Ma se l’arte non è che il bisogno primario di un ego di manifestarsi, allora l’unico modo per cambiare l’arte è distruggere l’ego (to change art destroy ego, 1965).
Di fronte ai paradossi, Ben non è mai arretrato, ma ha continuato per tutta la vita a girarci intorno fino a quel giorno del 5 giugno scorso. Il gesto di un artista che avendo sempre sostenuto che arte e vita sono la stessa cosa non ha voluto sottrarsi alla possibilità di scriverne il finale e unirsi per sempre alla sua Annie.