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Suggestioni lombrosiane sui «mostri» del Novecento
Fisiognomica: molte teorie di Cesare Lombroso sono smentite dalla scienza, ma il loro impatto sulla cultura resta importante
Roberto Festorazzi
Il caro, vecchio Darwin non sarebbe d’accordo sulla demolizione delle controverse teorie positiviste di Cesare Lombroso, padre dei moderni studi sulla personalità del deviante.
«Grande», «fantastico», lo celebrò Sigmund Freud.
Nel 1870, osservando il cranio del bandito calabrese Giuseppe Villella, Lombroso fu folgorato da una sorta di illuminazione, rivelatasi poi fallace. Notando la presenza di una anomala fossetta occipitale mediana, impronta del piccolo lobo centrale del cervelletto, ne attribuì l’insorgenza a un atavismo. La fossa mediana era già scomparsa in molte delle scimmie e dunque si era di fronte a un livello inferiore della scala evolutiva.
Lo scienziato fondò su quell’intuizione le sue considerazioni sulla naturalità del «delinquente nato», un tipo di soggetto non redimibile e portato a recidivare nel suo comportamento deviante.
L’accanito studio della fisiognomica fece poi il resto. Concentrandosi sulla morfologia dei volti umani, individuò in alcuni tratti somatici diffusi (naso schiacciato, fronte stretta, enormi mandibole e zigomi accentuati, prominenti arcate sopraccigliari) le tipologie più frequenti di delinquenti per nascita. Lombroso infatti riteneva che nel criminale affiorassero caratteri ancestrali scomparsi nell’uomo contemporaneo «normale», e imputava proprio a queste forme biologiche primitive, frutto di mancata evoluzione, la coazione a delinquere.
Benché molte delle teorie parascientifiche di Lombroso siano state smentite, nondimeno è innegabile la profonda traccia da lui lasciata nei campi del suo agire sperimentale, dalla medicina legale alla psichiatria, dalla sociologia al diritto.
Pioniere nell’uso delle impronte digitali per l’individuazione dei rei, coniò l’espressione «polizia scientifica».
George Mosse, indicando nell’illuminismo europeo le origini del razzismo novecentesco, volle inserire anche Lombroso nella lunga lista dei progenitori del nazismo, nonostante il fatto che questi sia stato tra i primi a denunciare l’antisemitismo, anche in quanto israelita.
Il suo determinismo lo portò certo a sposare impianti teoretici che si potrebbero definire di darwinismo sociale.
Riconosciuto tutto questo, è innegabile che il panorama culturale contemporaneo, e il nostro immaginario collettivo, offrano parecchi motivi per riflettere sulla suggestività, ad esempio, degli assunti fisiognomici lombrosiani.
Basta passare in rassegna l’album fotografico dei protagonisti dei totalitarismi del Ventesimo secolo, per accorgersi di come i tratti somatici di alcuni dei più spaventosi mostri generati da ideologie folli, balzino in evidenza per caratteristiche espressive particolari.
I volti dei capi della Germania nazista sono spesso maschere inquietanti, che probabilmente nessuno vorrebbe incontrare in ascensore. Giochiamo a descriverli «lombrosianamente».
Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler aveva stampato perennemente sul viso un ghigno che definirei satanico. E, se non sorrideva, era ancora peggio: emanava, con lo sguardo, un magnetismo torvo, da creatura di pura tenebra. Il cinema che si occupa delle derive apocalittiche dell’antropologia criminale del Novecento, si ciba di intuizioni lombrosiane, tanto è vero che, nella selezione delle corporeità attoriali, sceglie volti che evochino, non soltanto somiglianze fisiche con i personaggi che rappresentano, ma anche tratti di una certa inquietante incisività.
Oliver Hirschbiegel, il regista del film-colossal La caduta (Der Untergang), sugli ultimi giorni di Hitler, e della sua cerchia intima, ha scelto, non a caso, Ulrich Matthes, quale interprete della figura di Goebbels.
Matthes, e anche questa non è una coincidenza, ha partecipato, con ruoli da protagonista, a quattro episodi della fortunata serie televisiva, poliziesco-criminale, dell’Ispettore Derrick.
Vogliamo continuare?
Hermann Göring, il «numero due» del regime con la svastica, era (oggettivamente) un morfinomane che divenne obeso, e dalla faccia enfia. Ma, in quel volto già di per sé messaggero di allarmanti presentimenti, spiccavano due occhi chiari che sprizzavano efferata crudeltà.
Quanto a Rudolf Hess, altro fedelissimo «vice» del Führer, si rimane sconcertati, a osservare quella prominente arcata sopraccigliare, nella quale sono infossati due occhi «ciechi» che paiono spalancati sul nulla, e dal nulla paiono provenire, se per ciò si intendono gli abissi di una inesprimibile infermità mentale.
Per non concedere alcuna esclusiva, alla fisiognomica criminale della cricca di Hitler, basta qui citare la descrizione del leader della rivoluzione d’Ottobre, Lenin, che ci ha lasciato il barone Werner von der Schulenburg, letterato e diplomatico tedesco che visse a lungo in Ticino, ove si spense nel 1958.
Nel marzo del 1917, Schulenburg, a quel tempo attaché de presse dell’addetto militare, all’ambasciata imperiale germanica di Berna, fu inviato quale emissario speciale presso il capo bolscevico, per concordare i dettagli della sua partenza dal suolo elvetico, dove aveva vissuto da esule per alcuni anni.
Schulenburg restò impressionato dalle fattezze fisiche dell’uomo, soprattutto dalla sua «testa di legno vivo, intagliato da un grande artista burattinaio».
Di questo incontro, ci ha lasciato una descrizione incomparabile.
Lenin gli apparve «così malvagiamente brutto che difficilmente sarebbe stato possibile immaginarsi qualche cosa di più brutto. Tutta la costruzione del viso partiva dalla bocca. Non era una bocca, non erano delle fauci, era il cratere di un vulcano. Le pieghe profonde dagli angoli della bocca salivano fino alla radice del naso formando con le labbra un triangolo profondo dentro il quale scendeva aguzza la punta del naso».
L’album di famiglia degli inquilini del Cremlino prosegue con il ritratto di Josif Stalin, tiranno autore delle famigerate «purghe»: il suo volto è dominato dai folti baffoni, ha lo sguardo tagliente e glaciale da predatore, la pelle butterata. Dopo la breve parentesi, alla guida dell’Urss, di Malenkov, è la volta di Nikita Krusciov, denunciatore dei crimini di Stalin: un uomo dall’apparente bonomia, in realtà collerico ed esplosivo nella sua boria contadina rivestita da una spessa cotenna di lardo.
Destituito Krusciov, ascende al potere Leonid Breznev, pugno di ferro e sopracciglia cespugliose, il quale, negli anni del suo declino, è una specie di automa frankensteiniano. Gli succedono le ultime mummie del sistema al collasso: Yuri Andropov, figura dai lineamenti totalmente inespressivi, come se fosse uscito da una ibernazione, e Konstantin Cernenko, geriatrico leader, fenotipo di siberiano asiatico, che schiude le porte all’avvento di un capo fisiognomicamente (e finalmente) tranquillizzante: Michail Gorbaciov.