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Una storia scarna che affascina
Nel suo nuovo romanzo dal titolo «Il vecchio al mare» Domenico Starnone gioca a carte scoperte
Manuel Rossello
Da molti anni ormai Domenico Starnone appartiene di diritto alla categoria dei venerati maestri delle italiche lettere. Forte di questi galloni, nelle sue ultime prove narrative egli mescola con una certa spregiudicatezza generi e stili narrativi, con risultati sempre degni di nota. In effetti, facendo astrazione dai volumi scritti sotto il noto pseudonimo, le sue ultime cose sfuggono a una catalogazione precisa, sono piuttosto un’ibridazione tra flusso di coscienza, autobiografia, saggio socio-antropologico e altro ancora. In ogni caso quella di Starnone è una voce sempre «di sbieco».
Quasi che l’autore volesse metterci sull’attenti, fin dall’inizio del recente Il vecchio al mare troviamo una stranezza: una perifrasi troppo arzigogolata per non essere sospetta («lungo il confine tra la spiaggia asciutta e quella bagnata») in luogo di termini precisi come bagnasciuga, o ancor meglio battigia, o volendo il montaliano proda. Sciatteria stilistica? Tutt’altro. Questi termini sono presenti più oltre e segnalano gli snodi della trama. È come se lo scrittore ci avvertisse: attenzione, quel punto della spiaggia è un simbolo, rappresenta la zona fluida e impalpabile tra realtà e sogno, tra presente e passato. D’altra parte il testo è percorso da ricorrenti e molto precise notazioni atmosferiche, alcune memorabili. Ma non si è mai stabilmente in un elemento: o ci troviamo tra cielo e mare o tra mare e terra.
È stato detto che uno scrittore è l’unica persona che lavora anche quando sembra che non stia facendo nulla. Non fa molto nemmeno l’anziano protagonista del libro (guarda caso anch’egli scrittore e con la stessa età di Starnone), se non constatare il proprio decadimento fisico, mentre la spiaggia che frequenta si popola di sparute presenze. Tra queste la figura di una giovane commessa di boutique ridesterà nel protagonista il ricordo di sua madre. La trama è esile, i pochi personaggi evanescenti, lo spazio in cui agiscono è un palco di cartongesso. Ma ad affascinare è ciò che questa storia così scarna diventa nelle mani di Starnone. Infatti a poco a poco si intuisce che la trama non è che un pretesto per sperimentare altri territori espressivi. E quando l’evocazione di sua madre si compie, la storia retrocede sullo sfondo, perde d’importanza, come se il narratore dicesse: cari personaggi sul bagnasciuga, ora non mi servite più, ho alcune cose importanti da rivelare ai lettori.
Il lessico del vestiario, di arduo maneggio, è da sempre croce e delizia di ogni scrittore (ne sanno qualcosa i traduttori di Morte a Venezia, che devono sudare sui dettagli degli abiti del giovane Tadzio). Starnone ci sguazza a meraviglia e nell’evocazione materna riemergono, come segnacoli di una memoria rivivificata, i nomi di tessuti comuni in quel tempo lontano: taffettà, tulle, batista, organza, nappa chiffon…
Anche se il nucleo della storia (sua madre era effettivamente una sarta ed esercitava nella loro modesta casa, con le clienti che provavano gli abiti in camera da letto) sembra riguardare il rapporto mai risolto con il figlio e, per il figlio, rivivere nel negozio le pulsioni provate da bambino, tutto ciò non è, per così dire, che la sovrastruttura. Non sono le signore che si spogliano nel negozio a interessarlo, è la storia che se ne può cavare. In sostanza una situazione di voyeurismo narrativo.
Oltretutto Starnone inserisce nel testo numerosi autocommenti, piuttosto severi. Strana esegesi quella di chi irride ciò che ha appena scritto! In realtà, il vecchio scrittore che brontola per gli acciacchi forse si sta lamentando per la frustrazione di non riuscire a trovare la parola più adeguata, il giro di frase più efficace. C’è qui dunque una (splendida) violazione del tacito accordo tra scrittore e lettore: quest’ultimo assiste al farsi della scrittura e può leggere tutto, compresi i fallimenti, gli scarti, i ripensamenti. Ecco che lo scrittore dichiara di odiare le metafore, ma subito dopo ne sforna alcune notevoli. Il sospetto che si insinua è insomma che la storia non sia che una sorta di apparato scenico per sperimentare in presa diretta gli esiti della scrittura. Starnone gioca a carte scoperte («sto incollando qualche brano di memoria su questa figura di giovane donna»), è impietoso verso sé stesso («i miei leziosi il mare ansima, la sabbia geme, gli arbusti sbuffano») e sfoglia con noi le pagine del suo taccuino mostrandosi nell’atto di scrivere, con tutte le soddisfazioni e le frustrazioni del caso («irraggiare – questo verbo non è giusto, devo pensarci, ne troverò altri»). Mostrandoci in tal modo la scrittura nel suo momento magmatico.
Tutto il racconto è dunque anche la confessione di un’ossessione: quella di riuscire a scrivere la vita (non necessariamente la propria) e farlo nel migliore dei modi possibili (vivir para contarla, si potrebbe dire con García Márquez). In un capitolo del libro un uomo che ogni mattina perlustra la spiaggia con un metal detector, un giorno lo presta al protagonista. E lui che fa? Insensatamente lo usa di notte. A pensarci, quale migliore immagine di un metal detector usato di notte per suggerire il cieco avanzare a tentoni del vecchio scrittore alla ricerca della parola che lo appagherà?