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La stoffa inesauribile di cui sono fatti i sogni
Intervista alla compositrice francese Sophie Lacaze, prima donna a ricevere il Grand Prix Lycéen des Compositeurs
Davide Fersini
Nell'intricato universo della composizione contemporanea, non sono molti i nomi che riescono a trovare la fiducia, il sostegno e il credito necessari per ottenere la commissione di un'opera nuova. Lo sforzo implicato in una tale impresa richiede, infatti, molta ponderazione sul piano produttivo ed altrettanta convinzione su quello creativo. In tempi di ristrettezze economiche e in mancanza di munifici mecenati, occorre, insomma, che il nome prescelto sia garanzia di riuscita; come quello di Sophie Lacaze, con trent'anni di carriera sulle spalle e un'ottantina di pezzi in catalogo. Incontriamo la compositrice francese a Montecarlo, in una tiepida giornata di metà marzo. Nel giro di poche ore la sua nuova opera L’Étoffe inépuisable du rêve debutterà al Théâtre des Variétés nell'ambito del Festival Printemps des Arts e, comprensibilmente, la tensione è palpabile. La conversazione si fa subito vivace e nel contempo profonda; il tema del sogno ci guida fin dalle prime battute.
A 14 anni Sophie Lacaze decide di diventare compositrice. Il sogno si avvera e diventa una professione. A posteriori, come giudica la scelta di quella ragazza?
Non ricordo esattamente come sia nata in me quell'idea. Fu un'intuizione, più che un sogno. Volevo scrivere della musica, anche se non sapevo bene in che cosa consistesse l'occupazione di un compositore. Vede, io suonavo il pianoforte – è vero - ma la mia famiglia era molto distante dal mondo dell'arte e gli unici musicisti che frequentavo erano alcuni studenti del conservatorio. Indubbiamente non è stato, quindi, un percorso idilliaco, perché partivo da una condizione di inconsapevolezza rispetto a ciò che mi aspettava: mi stavo lanciando verso l'ignoto! Ma forse questa è stata la mia forza: sono cresciuta senza preconcetti. Guardandomi indietro, posso dire che il mio è stato un percorso denso di sfide, ma anche ricco di gratificazioni. Oggi ciò che mi emoziona di più del mio lavoro è il confronto con altri musicisti: la collaborazione, gli scambi di idee, la costruzione di progetti. Quindi, sì, la realtà è stata all'altezza del sogno, anche se in modo piuttostodiverso da come lo immaginava quella ragazza.
Un percorso, però, tutt'altro che lineare: terminati gli studi liceali, Sophie Lacaze, si laurea in ingegneria e per quindici anni persegue quella carriera, prima di dedicarsi interamente alla musica. Come le venne questa idea?
Fu una scelta del tutto naturale. Mio padre era uno scienziato e anche io avevo sempre mostrato una forte inclinazione per la matematica. Inoltre la mia famiglia non reputava quella del musicista come una vera professione. Fu così che mi ritrovai dapprima a studiare in una scuola di ingegneria - dove la quota di studentesse arrivava a malapena al 10% - e poi a lavorare nell'altrettanto 'virile' mondo della finanza. Ben presto, però la vocazione musicale tornò a farsi sentire. Decisi quindi di iscrivermi all'Ecole normale de Musique di Parigi – per il Conservatorio era troppo tardi – e finalmente conseguii il diploma di composizione.
E come andò?
Non fu facile. La mia rete di contatti nel mondo musicale era inesistente, venivo dalla provincia, non avevo studiato composizione nelle scuole tradizionali e per giunta, beh, ero una donna! Può sembrare uno scherzo, ma all'epoca, in Francia, la percentuale di brani composti da donne che venivano suonati nei festival e nelle radio nazionali non superava il 2%. Contro questo dato non potevo combattere – per lo meno da sola – potevo però migliorare la mia istruzione e ampliare le mie conoscenze: fu così che mi iscrissi ai corsi di Franco Donatoni e di Ennio Morricone presso l'Accademia Chigiana di Siena.
Ci può raccontare qualcosa di quel periodo?
Come dicevo poco fa, il mio percorso formativo è stato piuttosto atipico. Al termine degli studi non potevo dire né di appartenere ad una specifica corrente, né di aver appreso un'estetica da un maestro; ero, insomma, ancora alla ricerca di una strada personale alla composizione. Il tempo trascorso a Siena mi diede modo, quindi, di osservare da vicino il lavoro di due personalità molto forti anche se molto distanti fra loro del mondo musicale. Di Morricone, in particolare, ricordo il metodo. Per lui il talento e l'ispirazione non erano che un punto di partenza, per il resto occorreva lavorare senza sosta: scrivere, collezionare e archiviare scampoli sonori, appuntare ogni minima idea, elaborare e rielaborare ciò che si era prodotto, sperimentare, archiviare e poi... ripartire da capo!
Sembrerebbe quindi un'attività piuttosto intensa, quasi totalizzante! Ma si riesce a vivere solo di composizione e soprattutto resta del tempo per la vita?
Dipende dal tipo di musica che si vuole scrivere! Conosco diverse persone che compongono musica per il cinema o la televisione e vivono un'esistenza piena e soddisfacente. Ben altra cosa, invece, è il mondo della musica contemporanea, dove tutto dipende da quante commissioni si riescono ad ottenere ogni anno e dal grado di consenso – da parte di musicisti, pubblico e critica – che 'gira' intorno al proprio nome. In questo secondo caso, a quello di scrittura si somma tutto il lavoro di costruzione di una rete di relazioni personali ed istituzionali. Alle sue due domande mi permetto, quindi, di aggiungerne una terza: ne vale la pena?
E lei che cosa risponde a questa domanda?
Personalmente, ritengo molto importante che un compositore non si isoli dal mondo, perché la trasmissione e la condivisione sono essenziali per crescere e migliorare. Al lavoro di scrittura, quindi, nel tempo ho aggiunto quelli di insegnante, conferenziera, organizzatrice di concerti, divulgatrice e molto altro. Peraltro sono sempre stata affascinata dalle culture lontane, il cui studio ha arricchito, nel tempo, il mio pensiero musicale, nonché la mia vita di artista e di cittadina; una passione che nel 1996 mi ha spinta a partire per l'Australia, alla scoperta della cultura degli Aborigeni. Sentivo il bisogno di tornare alle radici della musica, perché il mio universo sonoro stava diventando troppo complicato, mi sentivo circondata da troppi ritmi diversi che si intrecciavano e moltiplicavano ma che, in sostanza, mi stavano facendo perdere la nozione stessa di ritmo. Le cerimonie e le danze rituali degli Aborigeni mi hanno restituito quella nozione mentre il loro strumento tradizionale - il didgeridoo - mi ha fatto scoprire il mondo dei suoni della natura e da allora non ho ancora smesso di esplorarlo.
In effetti, anche questo suo ultimo lavoro, L’Étoffe inépuisable du rêve, parte dalla cosmogonia aborigena per costruire una narrazione semplice ma densa di significati. Perché ha deciso di mettere in scena quei miti ancestrali proprio in forma di opera lirica?
Vede, la mia formazione scientifica mi ha portato a diventare ecologista molto prima che il tema del cambiamento climatico diventasse un argomento quotidiano di dibattito. Al momento, purtroppo, sono piuttosto pessimista sui possibili sviluppi futuri della questione ambientale. Tuttavia non volevo puntare il dito contro il pubblico e gridare: "Guardate, stiamo distruggendo il nostro pianeta, è orribile!" Io sono una musicista – un'artista - e volevo trovare un modo poetico per far passare un messaggio politico. Volevo prendere il pubblico per mano e portarlo in un universo in cui le suggestioni e le impressioni potessero avere un impatto più forte delle riflessioni e dei pensieri. Ma volevo anche che questo messaggio raggiungesse il più ampio pubblico possibile. Per questa ragione ho pensato che l'opera potesse rappresentare un veicolo molto più potente di un semplice concerto.
Non un'opera tradizionale, però!
Decisamente no! Tanto per cominciare, ho voluto aggiungere al tradizionale apparato dell'opera un suonatore di didgeridoo e di scacciapensieri; poi ho chiesto al librettista Alain Carré di farsi carico personalmente della declamazione del testo davanti al pubblico, lasciando ai cantanti il compito di intonare dei suoni volutamente incomprensibili ma carichi di sollecitazioni immaginifiche. Per quel che riguarda la musica, ho tratto ispirazione, come faccio ormai da anni, dal mondo della natura ma anche dal rumore cosmico proveniente dalle onde elettromagnetiche catturate dalle sonde della NASA. Nel corso dell’opera, infatti, è possibile ascoltare timbri, linee melodiche e ritmi ispirati al suono dei pianeti, ivi compresa – ovviamente - la Terra.
E in tutto questo che cosa c'entrano gli Aborigeni?
Nella cultura aborigena, la genesi del mondo viene circoscritta ad un periodo chiamato tempo del sogno durante il quale gli antenati creativi viaggiarono sulla terra per disegnare le caratteristiche del paesaggio, costruire le leggi della natura e istituire le tradizioni culturali. Di conseguenza, gli Aborigeni australiani considerano la natura come un'insegnante e una custode, verso la quale provano responsabilità e gratitudine. Come dicevo, io volevo esplorare le interazioni tra l'umanità e la natura, ma anche le conseguenze del nostro impatto sul pianeta. Ho provato, quindi, a mettere in scena una versione personale della leggenda di quel tempo del sogno per raccontare il nostro presente come il preludio ad un tempo doloroso del risveglio, in cui la Terra dovrà inventarsi un futuro senza l'uomo. In fin dei conti è semplice, Si tu t’occupes de la terre, elle s’occupera de toi, altrimenti...