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Il curioso caso di Johan Röhr
Se miliardi di ascolti non fanno la (buona) musica
Guido Mariani
Siamo nell’era delle «fake news», delle notizie fasulle che inquinano il dibattito politico, ma, forse, nel mondo dell’intrattenimento siamo entrati nell’era del «fake success», un successo che non è tale, ma è solo la capacità di agire sugli algoritmi e di conquistare un pubblico vastissimo che magari non esiste neppure.
A inizio anno un quotidiano di Stoccolma ha scoperto il curioso caso di Johan Röhr, un compositore svedese che, si è appurato, è riuscito ad accumulare miliardi di ascolti sulla piattaforma di streaming musicale Spotify, superando in ascolti complessivi superstar come Michael Jackson, Elton John, i Queen o i connazionali Abba. Con un cinico talento e un invidiabile senso del trasformismo, Röhr ha creato più di 600 pseudonimi con cui ha inondato il servizio di musica di brani assolutamente anonimi, però perfetti per entrare nelle centinaia di playlist di musica di sottofondo che oggi costituiscono una parte importante dell’universo dello streaming. È quasi impossibile rintracciare tutti gli alias che ha usato Röhr, alcuni sono Ralph Kaler, Sherry Novak, Jospeh Turley, Miu Hayashi, di altri non è dato sapere. La sua musica è assolutamente innocua, elegante e quasi indistinta, perfetta per essere un pacato e quasi noioso background per ristoranti o centri estetici. Della persona Röhr si sa poco o nulla, qualcuno suppone addirittura che non esista o che sia, a sua volta, un prestanome di qualcun altro. Ma fargli i conti in tasca, anche approssimativamente, non è impossibile. Gli sono state attribuite 2700 canzoni in parte inserite in più di 150 playlist ufficiali di Spotify che hanno più di 60 milioni di follower. Questo ha prodotto un totale di esecuzioni in streaming pari a 15 miliardi. Contato che Spotify paga da 0,3 a 0,5 centesimi di dollaro per ogni riproduzione superiore ai 30 secondi, il ricavato dell’operazione dovrebbe essere stato superiore ai 40 milioni di dollari.
Ma il curioso caso del misterioso Röhr non è unico. L’ignoto americano Matt Farley, le cui biografie descrivono come regista e compositore, ha iniziato agli albori dello streaming a immettere su Spotify centinaia di canzoni dopo aver scoperto che, come per i tradizionali motori di ricerca, le persone erano propense a fare ricerche legate a determinate parole chiave, spesso nomi di celebrità o cibi o parole sconvenienti. Utilizzando anch’egli pseudonimi ha creato brani sconclusionati, spesso volutamente infantili, con titoli però che potevano incuriosire il pubblico. Una produzione torrenziale di circa 24mila brani che parlano di attori di Hollywood, celebrità varie, squadre sportive, ricette, malattie e funzioni corporali. Insomma, le classiche «clickbait», le esche che possono richiamare chi fa delle ricerche e chi vaga su Spotify per trovare pezzi curiosi o che riguardano un tema di interesse. Il trucco anche in questo caso ha funzionato.
I sistemi di streaming, che oggi vengono usati dall’industria musicale per certificare dischi di platino e primi posti nelle classifiche, sono manipolabili. Spotify e servizi omologhi in realtà non ingannano nessuno. Non sono istituzioni culturali, non hanno un impegno a sostenere la qualità dell’arte e a difendere la creatività, sono corporation che devono fatturare e rispondere ai loro stockholder (per approfondire l'altro lato della mela, quello delle istituzioni, in questo numero, nelle pagine di Società, c'è l'articolo di Mattia Pelli dal titolo Ascolta, ecco che suono fa internet). Spotify nel suo rapporto annuale ha affermato di aver pagato agli autori in un anno un totale di 9 miliardi di dollari, il dato più alto di ogni servizio di streaming. Dalla sua nascita ha distribuito 48 miliardi di dollari. Una manna per un’industria che è al centro di una crisi pluridecennale, iniziata con l’avvento della musica sul web. Ma, dichiara il rapporto: «Sareste sorpresi a vedere gli artisti che hanno guadagnato milioni di dollari. Molti sono sconosciuti e non hanno avuto hit». Insomma, successo senza fama, «musicisti» milionari senza hit.
Una ragione è l’affermarsi di quelle che vengono definite «playlist funzionali», cioè raccolte musicali confezionate per fare da sfondo allo studio, al relax o addirittura al sonno. Quindi non necessariamente musica, ma registrazioni di suoni della natura o di rumore bianco. Il vero rischio, a questa stregua, è che la creatività di compositori e musicisti venga definitivamente fagocitata dall’Intelligenza Artificiale, il mezzo oggi più immediato per creare musica d’ambiente. Una minaccia che già è realtà. Qualcuno ha notato infatti che su Spotify esistono brani identici attribuiti a esecutori sconosciuti di nomi diversi. I brani, prodotti probabilmente con l’IA, compaiono in playlist ufficiali e qualcuno ha avanzato il dubbio che siano opera della stessa piattaforma per generare profitti per se stessa. Siamo alle teorie del complotto o siamo a un punto di rottura per il mondo della musica? La questione va oltre i servizi di streaming. La casa discografica Universal e il social network TikTok hanno siglato a maggio un accordo dopo che l’etichetta aveva impedito alla piattaforma l’utilizzo della propria musica per diverse ragioni, una delle quali era il timore che il social utilizzasse i brani, tutelati da copyright, come base per creare tramite intelligenza artificiale canzoni clone. «Collaboreremo per assicurarci che gli strumenti di IA siano sviluppati in modo responsabile – recita l’accordo – per dare vita a una nuova era di creatività musicale. Proteggendo allo stesso tempo la creatività umana». Speriamo. Intanto le star musicali, quelle vere, misurano la loro popolarità in base ai biglietti venduti e agli incassi dei concerti. Tra il 2023 e 2024 al top mondiale ci sono artisti che non hanno bisogno di presentazioni: Taylor Swift, U2, Springsteen, Coldplay, Madonna, Beyoncé e Harry Styles.