Asperiores, tenetur, blanditiis, quaerat odit ex exercitationem pariatur quibusdam veritatis quisquam laboriosam esse beatae hic perferendis velit deserunt soluta iste repellendus officia in neque veniam debitis placeat quo unde reprehenderit eum facilis vitae. Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipisicing elit. Nihil, reprehenderit!
Bibliografia
Edoardo Lombardi Vallauri, Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione, Einaudi, Torino, 2024.
Riflessioni per chi ama davvero la propria lingua
Le battaglie con l’inglese e contro il sessismo nell’ultimo saggio di Edoardo Lombardo Vallauri
Stefano Vassere
Certamente l’età contemporanea vive conflitti bellici in senso letterale, per cui potrebbe risultare sproporzionato e irrispettoso e abusivo parlare di guerre linguistiche. Però è questa l’immagine usata dal linguista Edoardo Lombardo Vallauri per Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione (Torino, Einaudi, 2024). Le battaglie in corso sul piano linguistico sono numerose, continuamente sospese tra chi se le canta di santa ragione e chi declassa il tutto in nome del benaltrismo invitando a volgere ad altri e più sostanziali problemi le proprie attenzioni. Esse sono combattute sui campi del linguaggio inclusivo, del linguaggio rispettoso del genere, dei tentativi di porre un argine all’interferenza dell’inglese, del turpiloquio.
Lombardi Vallauri sceglie di occuparsi de «La battaglia con l’inglese» e delle «Battaglie contro il sessismo», intestando così le due sezioni principali del libro. Il metodo è, diremmo, quasi tutto interno al sistema linguistico, della cui innocenza l’autore prende le difese quando il mainstream corrente tenderebbe a considerarlo come malato, investito di malafede e di conseguenza foriero di male e mancanza di rispetto. Sessismo e indulgenza verso il mondo anglosassone imperante andrebbero secondo Lombardi Vallauri cercati solo fuori, nel mondo extralinguistico, visto che la lingua di per sé ha la sola colpa di tendere verso la semplicità, l’economicità e una sorta di bene comunicativo tutto sommato innocente.
Prendiamo l’inglese. È noto che la lingua dell’Impero non intacca mai la sostanza di quella dominata, limitandosi a sfiorarne tutt’al più la buccia, il lessico, e lasciandone intatta l’anima, la grammatica. Lo stesso inglese è probabilmente la lingua più colonizzata di tutte, perché sono infinite le sue parole che vengono da altre lingue, anche dall’italiano. Dell’inglese usiamo in fondo solo quello che ci serve, buttando in fretta ciò che è inutile. Ed è impropria tutta una serie di preoccupazioni legate ai modi con i quali il materiale linguistico ci arriva da quella lingua; una è quella di pronunciare le parole in prestito secondo la loro dizione nella lingua di partenza. «In italiano, si dice Boston, con tutt’e due gli o, ben rotondi. Fare lo sforzo di mettere insieme il suono Baaast’n, è un’affettazione ridicola».
Imprecisa è anche l’idea che sarebbe necessario rinunciare a importare una parola inglese quando «c’è già» una parola in italiano con lo stesso significato. «Una parola come spoilerare serviva proprio. La cosa più pratica non era affidarsi a lunghe perifrasi, ma derivare un verbo dal termine inglese spoiler, già usato nel mondo della fiction». Ha ragione, Lombardi Vallauri: spesso si importa una parola per uno solo dei suoi valori di significato, non per tutti; e spesso quest’unico valore colma una lacuna del lessico dell’italiano: come bimbo non è la stessa cosa di bambino, cambiare, modificare e alterare presentano sfumature di significato, così meeting e riunione, corporate e azienda, step o passo, storytelling e narrazione non coincidono in tutto. Ma c’è altro: e-mail è più breve ed economico di posta elettronica, la babysitter non è una bambinaia, nel mondo della moda book ha prestigio contestuale più spendibile rispetto a libro delle foto. Dunque, infine, «spesso la difesa della propria lingua dagli elementi stranieri è solo il fastidio per ciò a cui non siamo ancora abituati». E, ancora, pensare che le lingue siano in guerra tra di loro, che una di esse ritenuta più potente cerchi di sconfiggerne un’altra prestandole parole che forse potrebbero addirittura arricchirla, significa capire nulla o quasi dei funzionamenti della lingua e del suo agire in una società. Il ragionamento vale per economia, finanza e potere politico; non vale per fatti linguistici.
Meno accademica e più cattiva è la guerra sul terreno del sessismo, linguistico o meno che sia. Lombardi Vallauri sceglie di spendere molte e molte pagine per parlare del cosiddetto «maschile sovraesteso», che denuncerebbe già nell’etichetta una prospettiva sbagliata di vedere le cose: il significato del maschile non marcato al plurale («Venite tutti», anche quando nel gruppo ci sono delle donne) «non è di esprimere maschilità, ma semplicemente di non esprimere nessun genere»; non marcare l’elemento linguistico non vuol dire essere maschilista, insomma. Certo – diremmo – si tratta di capire però due cose: dapprima, perché guarda caso proprio il maschile e per quale via storica siamo a questo punto? E poi, il fatto di usare sempre il maschile può alla lunga ingenerare qualche tipo di visione del mondo, questa sì più maschilista? Per il primo interrogativo la risposta di Lombardi Vallauri è decisamente originale: bisogna cercare il tratto di marcatezza del femminile in «un ulteriore surplus di animatezza, cioè la capacità di generare un altro individuo»; come a dire che il femminile è marcato perché le donne possono, e gli uomini no, fare dei figli.
Per il secondo interrogativo è invece interessante la vicenda dei Banawá dell’Amazzonia, che pur avendo il femminile non marcato al posto del maschile non marcato ne combinano di ogni nei confronti delle donne, per esempio imprigionando, percuotendo e perseguitando in vari modi le ragazzine al primo ciclo mestruale, e dimostrando quanto le teorie sul determinismo linguistico abbiano da quelle parti ben poco successo.
Insomma, per sindacare sulla nostra lingua non basta arrabbiarsi e assumere rigidità di principio. La lingua andrebbe un po’ dove vuole e meno dove decidiamo di farla andare; essa non è in sé né prona nei confronti dell’Impero né tantomeno maschilista. Volendo, si potrebbe dire che questo libro è infine dedicato a chi ama la propria lingua, a patto che non la ami troppo e tanto da diventare geloso del rapporto che essa intrattiene con altre lingue, o sia talmente accecato d’amore da accusarla di avere assunto cattiverie che, poverina!, certo non sono sue.