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Una casa per la divina Eleonora Duse
Sottile, emotiva, irrequieta: ritratto dell’attrice italiana a cento anni dalla morte
Gianluigi Bellei
Parecchi decenni fa quando mia madre raccontava dei Duse, dei Corsari, dei Vitaliani e degli Amilene non facevo molto caso al dettaglio che parlava di parenti. In questi mesi, cercando di allestire l’albero genealogico di famiglia, ho riflettuto sulle sue parole riannodando i ricordi.
Dopo gli anni Cinquanta dell’Ottocento, in Italia e poi internazionalmente, si affermano i grandi attori come Ernesto Rossi, Tommaso Salvini e Adelaide Ristori. Negli ultimi decenni del secolo invece i cosiddetti mattatori come Ermete Zacconi, Ermete Novelli e appunto la nostra Eleonora Duse. Quest’anno cade il centenario della morte della «divina». Ma chi era questo personaggio misterioso? Prima di provare a spiegarlo trascrivo il brano di una sua lettera e alcune descrizioni sul suo lavoro.
La lettera, del 1905, è indirizzata ad Aurélien Lugné-Poe su carta intestata dell’Hotel Continental di Parigi. Eleonora ha 47 anni e inizia così: «Il y a trois choses que je desir passionement: Travailler, Vivre, Mourir. Trois passionement».
Scrive Mirella Schino che il suo teatro «è una scossa, un’esperienza di tipo esistenziale, non una riflessione culturale, non un intrattenimento». È una maestra del disordine e i suoi spettacoli sono come scrolloni alla stabilità dolorosa. Sconfinando nella sofferenza. Le testimonianze su di lei sono attonite, sconvolte».
È un’attrice di potenza, un’incantatrice. Scrive George Bernard Shaw nel 1895: «La Duse è in azione da 5 minuti appena ed è già un quarto di secolo avanti alle più belle donne del mondo… è ambidestra e duttile come una ginnasta o una pantera».
Simone Le Bargy dice che «interpreta un paesaggio sconfinato da oscure inclinazioni, aspirazioni soffocate balenavano nella piega sottile di un’intonazione». Nel 1921, oramai anziana, Rouben Mamoulian da Londra sostiene che «la bellezza della giovinezza è affascinante ma quando la vecchiaia è bella, come accade solo di rado, ti acceca». Insomma è sottile, emotiva, esprime dolore, sofferenza, irrequietezza. Estetismo nella fase matura e spiritualità nella vecchiaia.
Il suo teatro regala una frattura, una vertigine e contemporaneamente la contemplazione dell’anima. «Prima recitava delle parti. Adesso recita solo se stessa».
Sale sul palco sempre senza trucco. Agita le mani, muove il viso, poi grida, sussurri, repentine cadute, si aggrappa a una tenda… Recita sempre in italiano, anche all’estero, ma gli spettatori capiscono ugualmente cosa vuole esprimere. Suo erede attoriale è stato forse Carmelo Bene.
Biografia di un’avventura
Sintetizzare la sua vita non è semplice. Chi volesse approfondirla può leggere L’attrice divina di Cesare Molinari, Il teatro di Eleonora Duse di Mirella Schino e gli Scritti di critica teatrale di Piero Gobetti. Chi invece vuole riviverla in un ritratto «inverecondo» può affrontare Il fuoco di Gabriele D’Annunzio, suo amante. Il maggiore deposito di documenti è sicuramente presso la Fondazione Cini di Venezia che proprio quest’anno le dedica una serie di esposizioni come Eleonora Duse. Mito contemporaneo a Palazzo Cini fino al 13 ottobre.
Eleonora Duse (nella foto) nasce a Vigevano il 3 ottobre 1858. I suoi genitori, Alessandro e Angelica, sono attori, come il nonno Luigi. Un’infanzia sempre in movimento fra una città e l’altra, dettata dalla povertà. I bambini figli di teatranti non frequentano la scuola e, se accettati per qualche settimana, sono dileggiati e scambiati per zingari. A cinque anni per la prima volta interpreta Cosetta de I miserabili di Victor Hugo. Poi viene scritturata assieme al padre in diverse compagnie. Nel 1878 per due anni è a Napoli con la Compagnia stabile I Fiorentini. Nel 1881 ricopre finalmente il ruolo di prima donna nella Compagnia Città di Torino di Cesare Rossi. In seguito spinge Rossi a inserire nel repertorio La principessa di Baghdad di Dumas figlio che Sarah Bernhardt sta recitando a Parigi.
Nel 1881 sposa l’attore Tebaldo Checchi e l’anno seguente nasce la figlia Enrichetta. Parte in tournée per il Sud America. Recita spesso all’estero e poco in Italia: al Cairo, Barcellona, Mosca, Vienna, Budapest, Berlino, New York, Chicago, Boston, Londra, Monaco…
Si separa dal marito e dal 1886 al 1898 intraprende una relazione con Arrigo Boito. Questi traduce per lei in forma teatrale molti testi che faranno parte del suo repertorio come Cleopatra e Macbeth. Nel 1897 recita nello stesso teatro di Sarah Bernhardt, il Théâtre de la Renaissance di Parigi. La sua consacrazione.
Poi l’incontro con Gabriele D’Annunzio. Una relazione tormentata, delirante. D’Annunzio, più giovane di cinque anni ne rimane stregato. Ma, in scena, i testi creati apposta per lei si rivelano un fallimento. Così scrive D’Annunzio ne Il Fuoco del 1900: «Ti vedo bella. Quando tu chiudi gli occhi così, ti sento mia fin nell’ultima ultima profondità, mia, in me, come l’anima è confusa col corpo; una sola vita, la mia e la tua…».
Dopo la rottura con D’Annunzio introduce nel suo repertorio i lavori di Henrik Ibsen e Maksim Gor’kij. Nel 1909 si ritira dalle scene. In questo periodo consolida i rapporti con gli intellettuali Giovanni Papini e Grazia Deledda. Nel 1916 gira il film Cenere di Febo Mari: un insuccesso. Durante la Grande guerra prende a cuore le sorti dei soldati; li visita negli avamposti, li rimette in contatto con le famiglie, scrive loro. Una struggente fotografia la ritrae con il capo ricoperto da un telo, come le contadine, sopra un camion fra soldati indaffarati, filo spinato e lo sguardo tenace. A un soldato chiede: «Dove porta questa strada?». «Alla morte, signora».
Un articolo del «Messaggero» del 9 marzo 1914 riporta enfaticamente: «Notavo nelle nostre truppe quasi una rassegnazione di fronte all’incalzare del nemico, ma all’improvviso l’atmosfera è cambiata: ho pensato che la notizia di un successo militare fosse rimbalzata lungo le cime, ridando forza e coraggio ai soldati. Mi sbagliavo: la nuova, imprevista bandiera era rappresentata da una donna tra i soldati. Ma che donna! Era Eleonora Duse, la mitica attrice che dopo avere spezzato tanti cuori dai palcoscenici e nei sogni, ora li sosteneva sul terreno della guerra».
Anni duri di rimpianti. Scrive a Marco Praga il 21 luglio 1920: «Me di me priva così furono quelle annate di silenzio». Oltre ai rammarichi subentrano i problemi finanziari e matura l’idea di un ritorno alle scene. Si affida alla Compagnia Zacconi e nel 1921 a Torino porta in scena La donna del mare di Henrik Ibsen. Gli abiti sono disegnati da Natal’ja Sergeeva Gončarova conosciuta durante una tournée a Mosca. La protagonista è Ellade, una giovane, e lei sconvolge tutti con i suoi capelli bianchi e senza trucco. In seguito forma una sua compagnia e va a Londra, a Vienna e negli Stati Uniti. Muore di polmonite a Pittsburgh il 21 aprile 1924.
La bara ritorna a Roma in nave. Mussolini vuole un grande funerale di Stato e le sua inumazione nella città eterna. La figlia Enrichetta si oppone ricordando il suo desiderio di essere seppellita ad Asolo. Durante il lungo viaggio verso il piccolo borgo la acclamano migliaia di persone. La sua amica del cuore Matilde Serao è furiosa. Scrive sul «Giorno» del 29-30 aprile 1924 una risentita invettiva. L’Italia, sostiene, non ha mai amato la Duse: «È stata mai fischiata la Duse all’estero? Mai, mai… Ma in Italia è stata molto fischiata, anzi fischiatissima». Poi lancia un’accusa contro il fascismo. Non un’irrisoria pensione bisognava darle, come prospettato e da lei rifiutata, ma un teatro stabile. Un anno dopo la Serao firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti.
Ad Asolo il 12 maggio 1924 ad aspettarla c’è una moltitudine di persone: Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, Giacomo Matteotti che pochi giorni dopo viene rapito e ucciso dai fascisti. C’è D’Annunzio inginocchiato davanti alla bara, gli amici attori in lacrime. La sua tomba si trova nel cimitero di Sant’Anna, appena fuori Asolo. Ada Negri ricorda che il cimitero, piccolo e umile, era ritenuto dalla Duse «il più raccolto e solenne dei cimiteri».
Asolo
Asolo è un piccolo borgo sopra un’altura contornato dal verde. In quel periodo doveva essere molto simile a come è oggi. Strette viuzze, portici come a Bologna, piccoli negozi, casette con gli architravi in legno, finestre fiorite, enormi ville dai sontuosi e curatissimi giardini.
Qui hanno abitato, tra gli altri, la regina Caterina Cornaro, Freya Stark e Robert Browning.
«Amo Asolo – scrive Eleonora a Marco Praga nel 1919 – perché è bello e tranquillo, paesetto di merletti e poesie perché non è lontano da Venezia che adoro perché vi stanno buoni amici che amo perché si trova fra il Grappa e il Montello… Questo sarà l’asilo per la mia ultima vecchiaia, e qui desidero essere seppellita. Ricordatelo, e se mai, ditelo…».
Giunge ad Asolo nel 1892 ospite di Katherine De Kay Bronson. Passa diverse volte da qui e nel 1920 affitta una casa che inizia a ristrutturare. Dopo la morte di Eleonora questa viene acquistata dalla figlia Enrichetta che nel 1934 la dona alla Società Acelum. Contemporaneamente dona molto materiale al Museo civico cittadino. Che è ora esposto in un nuovo allestimento interattivo nella sala di Una casa per Eleonora. Ci sono l’Eau de Cologne Impériale di Guerlain, un abito nero da sera della Maison Redfern di Parigi e uno verde acquamarina realizzato dall’atelier Worth sempre di Parigi. Questo è stato indossato per La donna e il mare di Ibsen. Poi libri, come i sette volumi in suo onore scritti dall’amica Katherine Onslow, oggetti vari e una teca dedicata alla famiglia.