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Dal boudoir letterario a quello digitale

Una riflessione sul rapporto con il nostro corpo che parte dall’opera di François de Sade e arriva a OnlyFans
/ 24/06/2024
Daniele Bernardi

È significativo che la nuova versione de La filosofia nel boudoir edita da Einaudi nella storica collana Gli struzzi, in quarta di copertina reciti: «Quel che fanno (…) i personaggi» di Sade «non può non insegnare (…) una percezione del proprio corpo nuova, gioiosa e liberatoria». A chi conosce l’opera in questione, così come l’intero corpus letterario del Marchese, probabilmente l’affermazione risulterà singolare.

Nel testo di Sade, apparso per prima volta nel 1795 - quando l’autore, oltre agli scandali del libertinaggio e della blasfemia, aveva alle spalle la stesura di Aline e Valcour, delle Centoventi giornate di Sodoma e della prima versione di Justine - protagonista è un gruppo di scellerati il cui obiettivo è educare, organizzando un’orgia, la giovane Éugenie ai «principi del libertinaggio più sfrenato». Mentre la banda e la fanciulla compiono ogni sorta di accoppiamenti multipli, Dolmancé – vero e proprio alter ego di Sade in veste di capobranco – intervalla ai coiti lunghe dissertazioni con cui argomenta tesi atte a legittimare il soddisfacimento della propria avidità come diritto di natura a scapito del prossimo.

Sade, quindi, col suo boudoir mette in luce un universo che di gioioso sembrerebbe avere poco (certo, il senso dell’umorismo non gli mancava, ma questo è un altro discorso). Per lui il sesso non è imparentato al piacere, ma alla pulsione, il cui comandamento è «godi pure del corpo dell’altro fino alla sua distruzione». Come mai, allora, nel presentare questa traduzione a firma di Patrizia Valduga – bellissima, bisogna ammetterlo – introdotta da una nota di Michele Mari, l’editore si esprime nei termini sopra riportati? C’è un che di sadiano nella nostra epoca?

In tempi recenti è apparso per «Il Sole 24 Ore» un notevole podcast in otto episodi intitolato Comprami, il cui scopo è raccontare un evento che, più o meno a partire dalla pandemia di Covid-19, va coinvolgendo un numero sempre maggiore di giovani e giovanissimi: parliamo di OnlyFans. Piattaforma web anglosassone attraverso la quale gli utenti guadagnano o spendono consumando materiali pornografici amatoriali, OnlyFans permette oggi a chiunque di vendere video personalizzati e conversazioni a tema sessuale per fare soldi (spesso anche moltissimi).

Daniele Vaschi e Andrea Franceschi hanno scelto di indagare il fenomeno a partire da una serie di interviste a chi, in modi diversi, è coinvolto in OnlyFans. Il loro approccio non è moralmente giudicante, ma muove a partire da una semplice domanda: qual è la vera posta in gioco per le persone che scelgono questa attività? Ebbene le risposte sono sorprendenti e, in qualche modo, suggeriscono qualcosa che sembra legarsi alla sopraccitata quarta di copertina.

«La mia intimità non è più i miei genitali» dice testualmente Vittoria, celebre «creatrice di contenuti» (come si usa dire oggi, attraverso una curiosa formulazione) su OnlyFans assieme al suo compagno Matteo. Quest’ultimo aggiunge: «Quando ci dicono che non è giusto che guadagniamo così tanto, rispondo che per me non è neanche giusto che un politico guadagni così tanto. O un calciatore». Eva sostiene addirittura che OnlyFans è un metodo di «ridistribuzione del capitale patriarcale». E Vittoria aggiunge che si tratta di una «rivincita pazzesca» sulla propria vita. Amici, parenti e datori di lavoro, a quanto dicono, in generale non sono scioccati dalla loro attività. Tuttalpiù chiedono se si tratta di «soldi veri» e commentano con un: «Bravi, quasi quasi lo faccio anch’io».

Sin dalla prima affermazione riportata (quella relativa ai genitali), notiamo la completa assenza di un sentimento in tutti gli interpellati: la vergogna. Per questi ragazzi vendere dei video in cui esibiscono la propria esplicita attività sessuale equivale a un lavoro qualsiasi. Anzi, a un lavoro migliore. D’altra parte, gli altri (quindi la società) la pensano così: non c’è niente di sbagliato, perché «non fanno mica del male a qualcuno».

Evidentemente un limite si è come liquefatto. Nel presentare Sade – estremo fenomeno letterario settecentesco in cui è a fuoco la pulsione di morte – oggi non si parla più di una zona proibita come si sarebbe fatto un tempo, quando si paragonava la sua scrittura a delle pietre poste a segnalare un confine oltre il quale non è possibile andare, ma di una guida per una rinnovata percezione del corpo. Non c’è quindi da stupirsi se ai giovani di OnlyFans manchi un freno inibitorio, perché culturalmente questo è messo fuori gioco da un contesto che dice loro «la tua intimità non esiste».

C’è però un punto sul quale gli intervistati insistono che sembra fare da spia a una sorta di preoccupazione comune. Tutti si difendono recisamente da quella che chiamano «accusa di prostituzione», sottolineando che la loro attività non è nulla del genere, poiché fra loro e gli utenti ai quali, su richiesta, forniscono giornalmente filmati ad hoc e migliaia di conversazioni online, non c’è contatto fisico. Qui vediamo che le loro argomentazioni in materia fanno acqua, esattamente come quel limite che si è disciolto, in virtù del loro rapporto con le parole. Come rimarca bene l’episodio 4 del podcast attraverso l’incontro con l’avvocato Marisa Marraffino – esperta di reati informatici e social network – la prostituzione non corrisponde all’amplesso né all’incontro fra corpi, ma a una prestazione sotto compenso il cui fine è il soddisfacimento sessuale dell’altro. Pertanto, essa necessita sì di una relazione, ma a prescindere dalla presenza.

Ciò detto, per tornare alla domanda da cui prende le mosse Comprami, qual è la posta in gioco per chi sceglie OnlyFans? Forse un prezzo pagato col pegno dell’inconsapevolezza in nome di una nuova dimensione dell’essere? E quali saranno a lungo termine gli effetti di questa dimensione che ora, ai «creators», appare come la massima realizzazione di sé? Non lo sappiamo, ma è qui, in ciò che riserva loro il futuro, che si disputa la partita più problematica, proprio perché il costo delle conseguenze dell’illimitato non ha ancora nome né misura.