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Bibliografia

Carteggio Verdi-Ghislanzoni. Ediz. critica, curatori Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni e Marco Spada, Istituto Nazionale Studi Verdiani, Parma, 2024.


L’Aida e le ciliegie

Lo scambio tra Verdi e Ghislanzoni raccolto in un’edizione critica in due volumi
/ 17/06/2024
Giovanni Gavazzeni

«L’interesse di un melodramma deve, a parer mio risultare quasi esclusivamente dai fatti, e questi fatti che si svolgono sulla scena debbono in certo modo essere comprensibili all’occhio. Un intreccio di avvenimenti e di passioni che si rendano percettibili allo spettatore a mezzo dei sensi».

Chi scrive nel 1877 questo manifesto intitolato Del libretto per musica, è Antonio Ghislanzoni (1824-93; ritratto nella foto), tipico esponente della Scapigliatura lombarda, cresciuto sotto l’egida dello scrittore dei Cento anni, Giuseppe Rovani, che in un alternarsi bizzarro di ritorni e di abbandoni, scrisse ottantasette libretti per musicisti di primo piano come Ponchielli, Gomes e Catalani. Però è ricordato solo per quello che scrisse per Verdi, Aida.

Quanto Ghislanzoni sottolineava, il primato dei fatti che diventano evidenza assoluta, era una declinazione del concetto che Verdi comunicò al librettista fin dall’inizio della loro collaborazione (iniziata saggiandolo col rimetter mano al nuovo finale «manzoniano» della Forza del Destino e a due scene capitali del Don Carlo), vale a dire il famoso concetto della parola scenica: «Io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione», concetto guida collegato al non meno fondamentale avvertimento che «quando l’azione lo domanda abbandonerei subito ritmo, rima, strofa, farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige.»

Il Carteggio 1870-1893, fra Verdi e Ghislanzoni, vede ora la luce in due ricchi volumi, frutto del lavoro a sei mani dei curatori Ilaria Bonomi, Edoardo Buroni e Marco Spada, pubblicato dall’Istituto di Studi Verdiani di Parma nella benemerita Edizione Nazionale dei Carteggi e Documenti verdiani.

Un Carteggio guarnito da ricche appendici che raccontano l’insolita gestazione di un’opera, attraverso le biografie del lungimirante committente, il pascià di origini cipriote Dranet Bey, che ne fece l’avvenimento di punta delle celebrazioni per l’apertura del canale di Suez, dell’autore dello Scenario, l’impresario e librettista Camille du Locle che lo aveva realizzato su indicazioni dell’erudito egittologo François-Auguste Mariette, dei resoconti di viaggio (Lettere egiziane), del racconto della rocambolesca prima al Cairo e delle dettagliate critiche del battesimo alla Scala, scritte dall’illustre critico musicale Filippo Filippi.

Il montaggio del libretto che il Ghislanzoni realizzò seguendo lo Scenario, ma soprattutto le indicazioni e le intuizioni di Verdi, «disposto a fare, rifare, voltare, cambiare mille volte, piuttosto che cento, fino a che Ella, illustre Maestro, sarà pienamente soddisfatto», come l’abile tessitore della nuova opera, l’editore Giulio Ricordi, rassicurava il compositore.

Ricordi ben sapeva che Verdi avrebbe apprezzato nel nuovo collaboratore il fatto che prima di fare il giornalista e di fondare e dirigere tante riviste, il «librettajo» Ghislanzoni aveva mescolato alla passione politica una carriera da baritono verdiano, toccando il momento di gloria nel ’51 agli Italiens di Parigi, quando cantò parte del re Carlo d’Asburgo nell’Ernani, e mentre il suo personaggio veniva incoronato imperatore come Carlo V, il Presidente della Repubblica francese si proclamava con un colpo di stato imperatore Napoleone III. La partecipazione alle Cinque Giornate di Milano costrinse Ghislanzoni a riparare prima all’albergo S. Michele di Chiasso e poi a Lugano dove conobbe Mazzini, finendo arrestato e incarcerato a Bastia dai francesi nel tentativo di raggiungere la Repubblica romana e Garibaldi.

Il Ghislanzoni baritono verdiano aveva girato i teatri di provincia italiani e francesi, a volte facendo l’impresario, il regista e il capocomico. Negli anni delle serate all’osteria con Rovani, Ghislanzoni raccontava agli amici del Caffè Martini, di essersi presentato al suo albergo a Milano lasciando esterrefatti gli inservienti in costume da generale romano: aveva cantato Ezio nell’Attila di Verdi a Codogno e riteneva superfluo cambiarsi per tornare a Milano.

Le stravaganze del baritono e del giornalista scapigliato non riguardarono il rispettoso librettista per Verdi. Mantenne il proposito di «secondare in tutto o avvicinarsi alle idee preconcette del maestro evitando l’assurdo»; di «escludere il riempitivo, tutto quanto non abbia un rapporto diretto colla azione, o distragga lo spettatore dal soggetto principale», rassegnato al fatto che quando va male «la colpa è sempre dei librettai».

E certe inverosimiglianze contro le quali aveva fatto le sue rimostranze gli furono attribuite dal Filippi alla prima della Scala: «Lo spettatore non si affanna a domandare se il prigioniero Amonasro possa irsene a zonzo nella reggia de Faraoni, se possa fuggire così facilmente, e in qual modo Aida discenda poscia nel sotterraneo senza sapere come uscirne, e vivendo tre giorni senza mangiare».

«Hanno ragione i letterati che si ammazzano… aprirò una botteguccia di commestibili, fors’anche una piccola osteria, e la farò finita col mestiere delle lettere»: minaccia espressa a Ricordi nel ’73 quando Aida entrava nel repertorio. Abbandonò Milano prima per Malgrate (Lecco), per stare vicino a Gomes e Ponchielli, poi si spostò a Caprino Bergamasco, dove il Sur Togn morì senza un soldo (Verdi avvertito gli mandò subito un assegno pietoso), dopo aver raccomandato alla domestica di portargli in camera i bimbi del paese e di distribuire loro un canestro di ciliegie, episodio vero del 16 luglio 1893.