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Aldo Sandmeier, uno storico con molto swing
Classe 1936, è scomparso nelle scorse settimane il più assiduo e preparato studioso del jazz ticinese
Alessandro Zanoli
Mi sembra già di sentirlo. Sapendo di questo articolo mi direbbe: «Ma non stare lì a perdere tempo. Non merito che si parli di me. Lascia perdere. Dimmi di Jazz in Bess, cosa state facendo?». Durante un’intervista con lui, a proposito della nascita della sua passione per la musica jazz («Come la chiami tu? Afroamericana? Interessante… c’è sempre bisogno di un sinonimo e non si sa mai quale usare», mi diceva) Aldo Sandmeier aveva minimizzato, glissato, cambiato discorso, con quel suo fare anche un po’ burbero che poteva intimidire chi non lo conosceva bene. In realtà era il segno di un desiderio di non perdere tempo, una voglia di andare al sodo nei discorsi. Un tratto un po’ teutonico del suo carattere che lui conosceva bene e che non gli dava nessun fastidio, anzi. Si accordava perfettamente con le sue origini d’oltregottardo, di cui gli capitava di ricordare spesso i dettagli, con modesta fierezza, al suo interlocutore.
Aldo Sandmeier, occorre dirlo, aveva una memoria invidiabile, sistematica, organizzatissima. Aveva una passione diremmo innata per le genealogie («Da dove viene la tua famiglia? Non siete originari di Brissago?») e questa attitudine gli veniva poi naturale applicarla anche alla complicata rete di correlazioni connessa con la storia del jazz, con i suoi mille gruppi, di cui ricordava nel dettaglio formazioni, strumentisti, incisioni. In un’epoca in cui non esistevano edizioni digitalizzate dei quotidiani ticinesi, Aldo aveva passato settimane in biblioteca a sfogliare le raccolte dei nostri periodici e ne aveva distillato ogni informazione utile a redigere il suo oggi imprescindibile Album del jazz di famiglia. Un testo che sorprende a ogni lettura per la mole di dati che raccoglie, con accuratezza e precisione e che serve a restituire l’immagine di un percorso culturale stupefacente, imboccato dal nostro cantone negli anni 30 del Novecento, e proseguito fino a oggi con risultati egregi.
Oggi una ricerca di quel tipo sarebbe più semplice, forse, da un punto di vista tecnologico, ma non da quello memorialistico. A quella minuziosa disamina si erano aggiunte ore e ore di interviste a musicisti, appassionati, organizzatori, giornalisti, tecnici, archivisti: chiunque si occupasse o si fosse occupato di jazz nel corso degli anni veniva da lui consultato e «catalogato», inserito cioè nel disegno complessivo di quella rete di relazioni e di attività che Aldo era venuto costituendo nel corso degli anni. Da quel lavoro colossale erano scaturite poi ben 60 puntate di una storia radiofonica del jazz ticinese, un patrimonio di informazioni che qualsiasi regione del mondo considererebbe come preziosissima e fondamentale.
È stato il nostro Alan Lomax, senza alcun dubbio, e questo suo lavoro di scavo e di recupero della memoria è stato poi perfezionato, con una coerenza logica e metodologica stupefacente, nel suo più recente impegno dedicato alle bandelle ticinesi, il libro Note di bandella, di cui era stato ispiratore e ideatore. «La musica della bandella, se ci pensi» mi aveva raccontato con fierezza quando ne avevamo parlato la prima volta, a ridosso dell’uscita del volume «è la nostra musica improvvisata. I tratti che la accomunano con il jazz sono moltissimi e io me ne ero accorto da subito».
Parlava sempre un po’ come un libro stampato, il caro Aldo, come se la sua forma mentis professorale avesse lasciato un’impronta indelebile nel suo modo di raccontare e di interloquire. Ma questo suo formalismo era solo un gioco retorico: raramente capiterà di incontrare una persona così sensibile, attenta alla storia personale dei propri interlocutori, alle loro inclinazioni e interessi, in una famigliarità allargata che, a conti fatti, ha coinvolto nella sua vita qualche migliaio di persone, contando naturalmente anche i numerosi contatti che aveva mantenuto con i propri ex-allievi.
Come sempre succede, ora che non c’è più avremo tutto il tempo per scoprire quanto ci mancheranno la sua competenza, la sua simpatia, il suo senso dello humor. E per gli appassionati di jazz, in particolare, la sua memoria storica, in grado di correlare a distanza di decenni dati e informazioni, in grado di fornire spiegazioni e chiarimenti utili e illuminanti. In grado anche di spiazzare e di far percepire quanto lavoro resterebbe da fare per aspirare a raggiungere almeno una parte delle conoscenze e competenze che lui aveva accumulato negli anni.
A chi scrive, resterà perlomeno il ricordo di una serata davvero storica, vissuta con lui a Lucerna, il 28 novembre del 2005, in occasione della presentazione del libro Jazz in der Schweiz. Geschichte und Geschichten, di Bruno Spoerri. In quel volume straordinario, unico, che ha cercato di disegnare la mappa di un movimento musicale incredibilmente ricco e variegato che onora il nostro Paese, un capitolo intero dedicato al Ticino è stato scritto proprio da Aldo Sandmeier. La fierezza di aver contribuito a un simile risultato era palpabile e ben brillante negli occhi di Aldo. L’avere avuto un riconoscimento nazionale così prestigioso contava moltissimo per lui. Anche per questo successo oltremodo meritato dobbiamo ricordarlo, a coronamento di un lavoro assiduo e certosino, ma anche come segnale dell’affetto che portava per il Ticino e per la sua sensibilità musicale.
Innamorato del jazz, come molti giovani della sua generazione, Aldo aveva trovato in Flavio Ambrosetti e nel Jazz Club Lugano una sorta di «chiamata» inconsapevole, che lui nel corso degli anni avrebbe approfondito più di chiunque altro: la vocazione a diventare il depositario della storia del jazz ticinese. Sembrerà poco, ma la consapevolezza di quanto il suo contributo sia stato unico e irripetibile fa rimpiangere la possibilità di ringraziarlo, una volta di più.