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Il comico e «Miss Dreamy», la sua stalker

Baby Reindeer è una miniserie inquietante e disturbante che racconta una storia di molestie al contrario
/ 10/06/2024
Virginia Antoniucci

Se la serie You ci aveva abituato a un bel tenebroso che seguiva le sue vittime con il cappellino calcato sulla testa, la nuova miniserie di punta di Netflix, Baby Reindeer, propone una ricetta che capovolge la classica dinamica dell’uomo cacciatore e della donna vittima. O almeno all’apparenza, perché lo show è ben lontano dall’incollare etichette ai suoi protagonisti.

Abbiamo Donny, aspirante comico e barista part-time (nella foto), perseguitato da Martha, una donna di mezza età con una personalità tanto esplosiva quanto ingombrante. Lontana dallo stereotipo della femme fatale impazzita all’Alex Forrest di Attrazione Fatale, è più una britannica Annie Wilkes che fa oscillare lo spettatore tra la simpatia e la comprensione per lei e il desiderio di chiudersi (o chiuderla) a chiave nel bagno.

Baby Reindeer, traducibile in «piccola renna», così la stalker chiama la preda, si dipana in sette episodi di una mezz’oretta, ma bastano 90 secondi del primo episodio per capire perché una serie senza uno straccio di volto famoso e un budget da reality show sia diventata un successo. «Questa è una storia vera» ci dice la scritta sullo schermo e tanto basta per far abboccare all’amo una generazione intera ormai dipendente dal true-crime e – stando ai dati Netflix – registrare oltre 22 milioni di visualizzazioni. Lo show non è un parto della fantasia, bensì la trasposizione romanzata degli anni di stalking vissuti da Richard Gadd, il tuttofare della serie che ne è autore e protagonista. Come i migliori podcast, la versione televisiva offre quello che la gente vuole dal proprio divano di casa: una catarsi che incontra l’empatia, alimentandosi a vicenda in un cortocircuito di illusoria sicurezza e terrore.

È da brividi pensare che a Donny sia bastato offrire una tazza di tè a una donna in lacrime per ritrovarsi in un incubo per lui senza fine e che noi invece possiamo mettere in pausa e interrompere in ogni momento. Sentiamo un nodo in gola al pensiero delle oltre 40’000 e-mail, 350 ore di messaggi vocali, 744 tweet, 46 messaggi su Facebook e 106 pagine di lettere che Martha ha inviato a Donny, quando ci bastano le notifiche di Microsoft Teams per andare in crisi. Ad alimentare il buzz online, con Stephen King in prima fila, che ha definito la serie «una delle cose migliori che abbia mai visto in televisione» sul «London Times», è proprio il pensiero di questo terrore scampato. C’è chi la elogia come il nuovo volto del commento socioculturale, e chi invece la vede come la rivisitazione di qualcosa di visto e rivisto. Eppure Baby Reindeer accentra l’attenzione, fa discutere. Apre il vaso di Pandora sulla scarsa sensibilizzazione verso le vittime maschili di molestie.

Un ribaltamento dei ruoli tradizionali

In Baby Reindeer, lo stalking non è solo un «lavoro da uomini», così come nella realtà, fuori da Netflix.

Ad esempio, l’ultimo report della Direzione Centrale della Polizia Criminale italiana ci dice che il 74% delle vittime di molestie sono donne, ma il restante 26% sono uomini. Persone spesso ignorate da una società che vende ancora la favola dell’uomo capace di sbrigarsela da solo quando uno studio della ZHAW (Zürcher Hochschule für Angewandte Wissenschaften) ci dice che l’8% dei maschi svizzeri interpellati è stato aggredito dalla compagna e in Svizzera si conta una sola casa per uomini vittime di violenza domestica nel Canton Argovia. 

La stessa situazione di Donny viene presa sotto gamba dalla polizia e dalla mentalità un po’ «trumpiana» degli pseudo amici, che lo ridicolizzano per non aver approfittato delle attenzioni dell’ammiratrice. Come Gadd ha riferito al «Guardian», durante un’intervista del 2019 per lo spettacolo teatrale della serie: «Mi hanno rimproverato per aver disturbato la polizia per essere stato molestato. Onestamente il mio consiglio a qualcuno che abbia mai pensato di sporgere denuncia sarebbe: lasciate stare, è un processo da incubo e ci vogliono anni». Lo stalking, spesso argomento relegato ai titoli di coda, emerge in una luce cruda in un campo di battaglia dove le vittime e i carnefici possono scambiarsi i ruoli a ogni nuovo episodio.

La complessità di Donny

Anche il comico riconosce di non poter dire che Martha fosse terribile e lui solo una vittima. Sarebbe un mondo più semplice se ci fosse sempre un cattivo con denti appuntiti e un mantello nero da identificare, ma in Baby Reindeer la vera oscurità risiede nel legame di co-dipendenza tra i protagonisti.

Martha, nel suo essere una stalker incallita, è quello che dice la sua tazza, «Miss Dreamy», una sorta di mitomane che plasma il mondo in una realtà alternativa in cui puoi provare ad essere felice, almeno fino alla prima denuncia. Donny, invece, deve fare i conti con la sua compassione per lei, il senso di colpa e la vergogna derivanti dagli abusi subiti, e la difficoltà di rivendicare il suo dolore in una cultura che fa fatica a credere che gli uomini possano essere vittime di storie da prima serata.

«È un piccolo trattato sull’appagamento del narcisismo, sull’insicurezza e la ricerca dell’identità sessuale di un’intera generazione. Un ritratto imperfetto, ma disturbante nella sua onestà senza filtri», suggerisce la recensione dell’«HuffPost».

Sono bastati pochi giorni dall’uscita per lanciare gli spettatori e il «Daily Mail» in una caccia ai veri protagonisti dietro i personaggi e far sollevare domande sul voyerismo digitale e sulla nostra sete di «verità». Quanto ci avviciniamo a quegli atteggiamenti mostrati (senza finire nel penale) con il nostro bisogno di sapere della vita di totali sconosciuti? E, soprattutto, quanto è etico esporre la vita reale in un modo che diventi inevitabilmente intrattenimento?

Alcuni puntano il dito contro Gadd, accusandolo di esser stato avventato e di aver sfruttato i chiari disturbi mentali della sua stalker nella corsa per la fama, incurante delle conseguenze. Dopotutto non c’è autofiction che possa essere raccontata senza passare per la gogna mediatica, ma bisogna ricordarsi che una storia, una volta esposta, non la si può più nascondere all’occhio spietato di internet.