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Una lettrice al microscopio

La cifra letteraria della scrittrice canadese Alice Ann Munro
/ 10/06/2024
Marta Morazzoni

«Avevo la sensazione che solo le donne riuscissero a scrivere di cose marginali, strane, anomale. Sono arrivata alla conclusione che quello era il nostro territorio, mentre il grande romanzo sulla vita reale era territorio degli autori di sesso maschile. Sapevo che c’era qualcosa nel modo di vedere il mondo proprio dei grandi autori, da cui ero tagliata fuori, ma non capivo bene cosa fosse».

Sono parole di Alice Munro (nella foto) e declinano un modo di guardare alla letteratura da un angolo visuale in apparenza limitato a confronto con il respiro romanzesco. In realtà la signora poteva e può vantare una nobile compagnia di uomini nell’arte del racconto nella letteratura moderna, da Cechov a Hemingway a Carver, a Maupassant. E le donne romanziere non sono mancate di certo: George Eliot, la Austen, le sorelle Brontë, e così via, fino ad arrivare a oggi, stagione in cui sembra che il romanzo, in una fase in cui sono più le donne che gli uomini a scrivere, dia una sensazione di maggiore solidità. Le affermazioni categoriche sono sempre esposte alla smentita! Ma una cosa è certa: quel particolare angolo visuale, che non so se appartenga alle donne tout court, di sicuro è il tratto caratterizzante di Alice Munro, della sua arte del raccontare costruita sul nulla o poco più che nulla quanto ad avvenimenti, concreta e insieme intrisa di un magnetismo difficile da spiegare, perché pare fatto di così poco, quel così poco che ti fa dire «l’avrei saputo fare anch’io!» ed è, proprio per questo, il segno di una inarrivabile maestria.

L’autrice, recentemente scomparsa e per definizione «la signora del racconto», (mi pare ci sia un solo romanzo nella sua carriera) ha trovato nella brevità la misura della sua arte. E sono entrata così nel terreno minato che tocca la fisionomia dello scrittore: gli spetta, appunto, il titolo di artista? In genere la risposta è no, non al prosatore, ed è un pregiudizio. L’ho pensato con convinzione, addentrandomi nella lettura dei suoi racconti, nel metodo fatto della lucida leggerezza con cui declina il microcosmo quotidiano nel quale si spende la più parte delle nostre vite. Se Proust usava il telescopio per osservare l’umanità, e la teneva così a grande distanza, la Munro è una lettrice al microscopio e un’interprete partecipe del gesto minimo, della reazione impercettibile e però rivelatrice.

Nella sua scrittura mondo interiore e mondo esteriore si misurano alla pari, a conferma di quanto un grande scrittore sia segnato anche dal suo paesaggio. Non è una questione misurabile in acri di terra, è piuttosto un fenomeno osmotico che filtra nell’anima e solo la capacità percettiva di un artista arriva a comprenderlo e tradurlo in parole. Alice Munro è canadese, il suo Paese è più vasto degli Stati Uniti e più dilatato, ha una varietà di luci e di colori aperti al grande respiro che nella narrazione della scrittrice diventa il respiro di uomini e donne colti nella banalità del quotidiano. Una contraddizione? In realtà no, perché l’intensità delle emozioni si gioca sui toni maggiori come sui minori; sono silenzi e mezze parole, disagi e dissonanze, vissuti in interni di case, nelle strade di città senza fascino, come in spazi larghi, nell’ambito rurale che è stato il luogo originario della stessa Munro, elementi che percorrono il mondo narrativo della scrittrice che ha lavorato sulla tonalità impressionista del colpo d’occhio, per poi affrontare l’affondo. La sua è una scrittura poco artificiosa, eppure mette in campo una bella audacia stilistica quando, per esempio, colloca in principio di racconto un elemento che rimane, icastico, più nell’inconscio che nella memoria del lettore. Ci vorranno pagine e pagine perché quel colpo d’occhio abbia una ragion d’essere e spieghi in tutta chiarezza uno stato d’animo, magari il tuffo al cuore di un passato remoto che torna ad aggredire il presente. È una tecnica efficace che declina un modo di essere della mente, e lo traduce poi in parole, dosandole con grande sapienza, perché appaiano al lettore del tutto naturali.

Niente nel mondo della Munro ci porta verso dimensioni troppo remote, niente è per così dire esotico. La vastità del suo Paese è tutta dentro i piccoli passi del quotidiano, così anche la prepotenza della natura: penso al racconto Le ortiche, dove il passato di una storia di ragazzini torna a galleggiare nel mondo adulto e ormai definito: c’è, raccontato in prima persona dalla protagonista, un temporale spaventoso che sospende il tempo e in questa parentesi violenta di vento furioso e pioggia lascia spazio all’emergere di una difficile verità.

Sono i dettagli, gli impercettibili ritorni di memoria su una parola, un tono di voce, uno sguardo, a fornire la chiave di volta di una vita intera; a sorprenderci non è l’éclat clamoroso, quanto piuttosto il piccolo particolare, il buco nell’asfalto sotto cui si apre la voragine. E non è di necessità una voragine che cambia in negativo l’assetto delle cose, penso a Nemico amico amante… dove l’imprevedibile esito di un gioco crudele di adolescenti risolve due vite. C’è qui una vena di stupore, di ironia, e una domanda senza risposta, aperta sull’ignoto: Tu ne quesieris, scire nefas, quem mihi quem tibi… ed è in certo senso il tema sottotraccia che accompagna le storie della Munro: inutile chiedere, a noi non è dato sapere cosa riserva il destino. Torniamo sul rapporto tra romanzo e racconto, fermiamoci sulla misura piccola che in poche pagine deve costruire e esaurire la sua energia: è un campo minato che anche i grandi autori hanno percorso in punta di piedi, sapendo di correre a ogni passo il rischio di scivolare nella banalità. La Munro, nonché non cadere mai nella banalità, lo ha attraversato in perfetto equilibrio e quasi senza sforzo. Se non è arte questa!