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Torso Gaddi, Gallerie degli Uffizi, Firenze.

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Quanta bellezza in un torso

La storia del busto di Gaddi conservato agli Uffizi
/ 03/06/2024
Gianluigi Bellei

Chiedersi oggi cosa sia la bellezza può risultare pleonastico. Soprattutto se ci si guarda attorno e si vede tutto quello che accade. In ogni caso cinquemila anni di storia ci hanno regalato aspetti variegati di bellezza. Nel III millennio avanti Cristo troviamo la Venere di Willendorf, tondetta, con fianchi pronunciati e seni sovrabbondanti: qui la bellezza va di pari passo con la riproduzione della specie. Nel 1630 Peter Paul Rubens dipinge Hélène Fourment come Afrodite con il grasso sovrabbondante ed egualmente distribuito. Più recentemente chi non ricorda l’emaciata (quasi anoressica) Twiggy? C’è da rimanere disorientati.

Fortunatamente ci soccorrono gli antichi greci. Nel VI secolo a.C. Pitagora sostiene che il numero è il fondamento del reale e quindi ne deriva che il bello è ordine. Sono gli artisti che danno vestibilità al concetto con le loro statue nelle quali la bellezza è proporzione. Policleto nel V secolo a.C. scrive un trattato per esplicare la sua téchne. In esso si fa riferimento al cosiddetto Canone. Secondo gli scritti posteriori che riportano il concetto, per Policleto il bello (tò kállos) nasce dalla simmetria. Come termine di paragone per molto tempo si è ritenuto che a identificare il Canone fosse la statua del Doriforo.

Ma non è tutto. Le Belle arti così come le intendiamo noi oggi al tempo dei Greci erano molto diverse. Per loro la bellezza è un valore etico. Si tratta del composto kalos kagathos e del sostantivo kalokagathia: bello-e-buono. Intendiamoci, il concetto matura nelle classi aristocratiche, quelle cioè che vivono del possesso delle terre e non lavorano.

Saffo (VII-VI secolo a.C.) scrive: «Chi è bello lo è finché è sotto gli occhi, chi è anche buono lo è ora e lo sarà poi». Platone nelle Leggi del 360-350 a.C. precisa: «Riguardo a ogni immagine (eikon) dunque, che sia in pittura, in mousike, o in ogni altra arte, non è forse necessario che chi voglia esserne giudice intelligente debba possedere queste tre caratteristiche e cioè conoscere che cosa è l’oggetto che viene imitato; in secondo luogo conoscere quanto correttamente (orthos) viene imitato; e poi, quanto bene (eu), terzo elemento, opera un’immagine qualunque?».

Non esiste, infine, bontà dell’esecuzione senza bontà del contenuto.

Per fare un esempio citeremo il Torso Gaddi alla Galleria degli Uffizi di Firenze. Parlare degli Uffizi sembrerebbe inutile: è forse il museo più famoso del mondo ed è compito arduo scegliere fra i suoi tanti capolavori. Citiamo la Sala della Niobe al secondo piano restaurata nel 2008 dopo l’attentato del 1993. La Sala si deve a Pietro Leopoldo di Lorena e contiene una serie di statue classiche e due grandi dipinti di Pieter Paul Rubens: la Battaglia e il Trionfo (1627-1630) ispirati alla vita di Enrico IV. L’incarico viene dato dalla vedova Maria de’ Medici all’artista che sembra aver partecipato alle nozze per procura dei due sovrani a Firenze nel 1600. I dipinti dovevano far parte di una serie dedicata alla vita della regina che per problemi politici (l’esilio di Maria) non è stata mai terminata. Dopo varie vicissitudini le tele da Anversa sono giunte in Italia e portate poi a Firenze.

Si chiama Torso Gaddi perché nelle vite di Lorenzo Ghiberti il Vasari scrive: «…il quale (Lorenzo) oltre le cose di sua mano, lasciò agli eredi molte anticaglie di marmo e di bronzo, come il letto di Policleto che era cosa rarissima, una gamba di bronzo grande quanto è il vivo, et alcune teste di femine e di maschi, con essi certi vasi fatti da lui condurre di Grecia con non piccola spesa. Lasciò parimenti alcuni torsi di figure et altre cose molte; le quali tutte furono insieme con le facultà di Lorenzo andate male; e parte vendute a messer Giovanni Gaddi, allora chierico di camera».

Giovanni Gaddi nasce a Firenze nel 1492. La sua famiglia si dedica all’attività bancaria. Nel 1527 sovvenziona il Papa con 40.000 scudi. Conseguiti gli ordini ecclesiastici ottiene l’abbazia di San Salvatore a Salvamondo. Sotto Clemente VII raggiunge, comprandola, la dignità di chierico della Camera apostolica. Nella sua casa romana è presente una ricca biblioteca e da lui si ritrovano poeti, letterati e artisti quali Aretino, Varchi, Tribolo, Sansovino e Cellini. Quest’ultimo nella sua Autobiografia scrive che Gaddi «si dilettava di ogni virtù non avendone nessuna». Muore a Roma nel 1542.

Il torso deriva da un prototipo del II secolo a.C. Raffigura un giovane centauro che doveva essere assieme a uno anziano cavalcato da un amorino. Forse la metafora della forza di Eros. Il busto non è mai stato restaurato perché dai più grandi artisti come Michelangelo considerato un’opera a sé stante, completa e potente.

Decenni fa Guido Achille Mansuelli ha ipotizzato che fosse un satiro e, data la somiglianza con l’atletico e possente Torso del Belvedere del I secolo a.C. firmato da Apollonios di Nestore, ne ha attribuito la paternità allo stesso scultore.

Vincenzo Saladino scrive di apoteosi di Eracle contro centauri selvaggi raffigurati con le mani legate dietro il dorso che richiamano le guerre vittoriose di Alessandro. Per un’iconografia complessiva di come poteva essere in origine propone Il centauro Borghese al Louvre di Parigi e il Centauro anziano al Museo Capitolino di Roma. Così lo descrive mirabilmente nel suo scritto Cantauri restrictis ad terga manibus del 1988: «Il suo modellato, segnato da depressioni e avvallamenti, risulta mosso e variato, mentre l’epidermide non si limita a fasciarne i volumi, ma svolge un ruolo autonomo, divenendo tesa e sottile sulle masse muscolari rigonfie, mentre nella parti non sottoposte a sforzo appare rilasciata e quasi ispessita».