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Bibliografia

Rachel Aviv, Stranieri a noi stessi, Iperborea, Milano, 2024.


Estranei a noi stessi

Esemplare la narrazione di Rachel Aviv dedicata alla malattia mentale e ai protagonisti della sua cura
/ 20/05/2024
Stefano Vassere

Se si dovesse identificare una lingua e un’area geografica cui attribuire un primato, quello di avere creato e di praticare con maestria superiore il genere del saggio narrativo, il nitrito suonerebbe altissimo nella direzione del mondo anglosassone e degli Stati Uniti in special modo. In questo Stranieri a noi stessi, traduzione di Claudia Durasanti, la più volte premiata giornalista del «New Yorker» Rachel Aviv parte come narratrice di una inusuale esperienza personale di anoressia infantile del tipo meno diffuso. Per poi accostare i casi psichiatrici di quattro altre persone, delle quali racconta la malattia sparendo letteralmente dalla narrazione e sostenendosi con un tanto imponente quanto discreto apparato di note, richiamate semplicemente con il numero della pagina, assenti del tutto gli apici a testo tipici del saggio. Leggere Stranieri a noi stessi è esperienza estetica superiore; e se la vita è, come si usa dire, un succedersi continuo di empatie narrate, leggere questo libro è semplicemente la vita.

Il racconto della malattia mentale è progetto che seduce e spesso si ha l’impressione che l’impresa sia tutto sommato abbordabile. Le insidie sono però innumerevoli, e gli ostacoli stanno tutti lì ben saldi. Basti pensare al potenziale eccesso di complicità con quelle esistenze così dolenti, al carattere liquido e non definitivo degli stati d’animo, alla difficoltà evidente di trovare le parole, al procedere zoppicante delle vicende retrostanti, all’epilogo talora drammatico di alcune di quelle vite.

Rachel Aviv sceglie una via oltremodo ardita: quella di privilegiare quattro storie a loro modo paradigmatiche, perché i loro protagonisti paiono quasi esemplificare destini più grandi di loro. Il nefrologo Ray Osheroff subisce in prima persona uno scontro tra scuole che agitava la seconda parte del secolo passato, la psicanalisi allora imperante ma precaria di fronte ai successi delle pratiche neurobiologiche, della prescrizione degli psicofarmaci. La parabola di Bapu pone il problema di chiederci se l’approccio psichiatrico sia da considerare in sé, universale, biologico e indipendente dalle culture o dalle religioni, o se siano in gioco questioni di punti di vista, di prospettive antropologiche. «Nella schizofrenia troppa religione non va bene. Ai miei pazienti dico: ’Non datevi alla filosofia. Studiate cose pratiche. È meglio che far vagare la nostra mente’. Leggevamo solo libri occidentali, inglesi e tedeschi e americani. Non avevamo autori indiani. All’epoca, nessuno psichiatra indiano era capace di scrivere un libro».

Naomi è nera e le sue opportunità di accedere a cure mediche e specialistiche sono diminuite e precarie. Laura è vittima del ben noto e sperimentato succedersi vertiginoso e malefico di medici e di farmaci: ne farà esperienza abbondante e variegata, giungendo ad assumere in successione diciassette diversi psicofarmaci e perdendo qualsiasi percezione adeguata di sé. Chiude la serie e il cerchio iniziale il rendiconto del destino di Hava, compagna di reparto della narratrice in quella così precoce anoressia di inizio libro. In mezzo, tutto il fiorire di saggistica narrativa che, come detto, configura uno stile e un genere esclusivo di quel mondo della letteratura.

Poi ci sono le note. Sono trenta pagine di rinvii, frutto di anni e anni di studio e di incontri con le persone. C’è il riferimento ai diari, agli articoli di giornale, al materiale archivistico, ovviamente alla letteratura scientifica, agli atti del processo intentato da Ray alla clinica accusata di insistere cocciutamente con la psicoanalisi, le memorie e i referti medici, il libro che lo stesso Ray ha pianificato in molti anni per far sapere al mondo delle pene sofferte. Le pagine dei «diari redatti a mano, scritti soprattutto in tamil (con incursioni in sanscrito) che la nuora di Bapu ha scoperto in una credenza a casa di Bapu dopo la sua morte», sono ottocento; le lettere sono un centinaio. I referti medici e i verbali della polizia nel caso di Naomi sono ancora un centinaio e sono migliaia i dati derivati dagli archivi dei pronto soccorso cui si è rivolta tutte quelle volte.

Ancora di Naomi si conservano e sono stati consultati un quaderno di appunti di più di cento pagine e altri materiali; Naomi «ripuliva regolarmente la sua cella e mandava lettere, quadernini, disegni e libri alla sorella Toma, che li ha custoditi a casa sua a Chicago. Dopo il rilascio di Naomi, Toma ha trasferito tutte le lettere e gli altri scritti della sorella in tre enormi sacchi della spazzatura. Questo libro attinge a due di quei sacchi; il terzo era sommerso tra altri oggetti e Toma non è riuscita a recuperarlo». Certo è che colpisce sempre, in relazione a queste tristi esistenze, la produzione scritta, debordante e ossessiva.

La sensazione complessiva è di trovarsi di fronte a una storia che poggia sulle solide e tutto sommato consolanti basi della verità, tangibile e verificabile in qualsiasi momento e in qualsiasi direzione. L’autrice assume il ruolo immaginifico di filtro e di tramite invisibile delle storie raccontate e il nostro compito è semplicemente quello di leggerle con profitto e gratificazione, ringraziando di potere avere davanti un così risplendente materiale estetico.

«Anni prima, durante un periodo di semidegenza, Hava aveva scritto nel suo diario che si sentiva come la tartaruga che cerca di attraversare la strada in Furore. Con “occhi crudeli e beffardi”, la tartaruga si trascina sul suolo caldo, persino dopo essere stata colpita al guscio da un camioncino ed essersi rovesciata a pancia all’aria fuori dalla carreggiata. La tartaruga si raddrizza e piano riprende il cammino».