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Sheldon Suter suonerà al Festival jazz di Sciaffusa il 23 maggio alle 21:15


La performance come ricerca creativa

Il batterista ticinese Sheldon Suter che in questi giorni suona al Festival del jazz di Sciaffusa ci racconta il suo lavoro di ricerca musicale
/ 20/05/2024
Alessandro Zanoli

Osservare Sheldon Suter mentre assembla la sua batteria è un’esperienza sorprendente. A partire dalla monumentale grancassa, un pezzo storico che arriva addirittura dall’orchestra del Teatro Apollo di Lugano, il suo set percussivo si compone, tra le varie cose, di due cetre, un rullante in ottone, piccoli gong, scodelline in bronzo di varie misure (sono campane tibetane) e addirittura di un giradischi portatile. La sua ricerca nel campo dei suoni è quotidiana, praticata anche attraverso minuziose ricerche nei mercatini dell’usato. Il tutto per dar forma a un’idea musicale che va ben oltre il già complesso insieme di strumenti che offre la batteria. L’esercizio serve per assecondare una concezione musicale estremamente originale, in un percorso di studio che il batterista locarnese ha intrapreso ormai da anni. In occasione della sua prossima partecipazione come solista al Festival jazz di Sciaffusa, abbiamo pensato di parlare con lui della sua esperienza.

 

Sheldon Suter, colpisce molto la sua idea di registrare un disco, Berceuses Et Nocturnes,  (Shhpuma, 2023) di ninne nanne per le sue figlie, realizzate con la batteria; ma, di fatto, la sua non è più una normale batteria...
È vero, è il risultato di uno sviluppo compiuto negli anni, magari anche la testimonianza di un mio rapporto conflittuale con la batteria, una mia ricerca per ottenere dei suoni lunghi. Ad esempio la mia grancassa ha una forma particolare, stretta, con due pelli non sintetiche; è uno strumento antico che ho trovato dai rigattieri. Nel disco poi ho usato campane tibetane suonate con l'archetto, ho studiato l'uso della cetra con timbri diversi. Insomma, in questo modo il suo suono diventa armonico, anche se fondamentalmente a me interessa il timbro degli strumenti.

Con che logica li combina?
Ci sono particolari motivazioni per le strutture sonore che nascono: sono impasti costruiti ad orecchio, partendo dalle simpatie tra certi timbri, che trovo interessanti. C'è spesso un aspetto che va verso la trance ipnotica, poi elementi molto minimali, trame che crescono un po' e scompaiono. In fondo è come se aspettassi di essere sorpreso dai suoni. Nel costruire il brano la forma iniziale è improvvisata. In fase di preparazione mi registro costantemente, prendo degli appunti, e poi ogni giorno riparto da dove ho finito la sera prima. Può succedere che si vada a finire in direzioni inattese, magari grazie agli spunti offerti dal giradischi.

Cosa ci fa un giradischi in un set di percussioni?
È un giradischi portatile di cui si può modificare le velocità. Sono andato alla ricerca di vecchi «schellack» a 78 giri, nei mercatini dell'usato. Non è solo musica classica, ci sono anche delle rarità, dischi usati per sonorizzare film, cose strane, amatoriali. Ho conosciuto anche un altro batterista che stava lavorando in una direzione simile. Faccio girare il disco a diverse velocità; da 78 vai ai 16. Nel mio album c’è un pezzo in cui uso un coro di cosacchi... sono piccoli pezzetti ma danno grandi sorprese. Registrandomi e riascoltandomi, con un microfono o col telefonino, avevo fatto un test per capire se il suono poteva aver una consistenza tale da essere messo in un disco. Ho fatto venire un tecnico del suono al locale di studio e abbiamo registrato in modo professionale: lì mi sono stupito, in particolare della grancassa, con frequenze bassissime e un suono che si mantiene per 5-6 secondi. Da lì la decisione di registrare all’auditorio Stelio Molo.

Le composizioni si basano su ritmi precisi?
Certi brani hanno un metro di 5/8 o di 7/8, ma sono molto diluiti; nella registrazione effettuata all’Auditorio dello Studio Radio di Besso ho usato il riverbero della sala, e il ritmo è scandito, ma  si diluisce proprio a dipendenza del timbro dello strumento. Poi cerco di elaborare anche la forma della percussione: in vari pezzi sperimento l'opposizione tra tempo tenuto con una mano e rubato con l'altra; a volte percuoto con un battente il kalimba e con l’altra mano sfrego il Glockenspiel con l'archetto. Si creano questi strati di suoni, che vengono orchestrati, proprio come una band. Per me comunque sono importanti i timbri degli strumenti. Anche quando suono la batteria in modo più tradizionale la preparo in modo da adattarsi a ogni progetto, magari scegliendo piatti che si  contrappongono alle frequenze che arrivano dagli altri strumenti.

Oltre alla dimensione in solo, i suoi progetti coinvolgono vari musicisti.
È bello lavorare con altri musicisti. Da solo a volte sembra strano, ti senti isolato, d’altro canto tutti i miei strumenti sono complessi, sono anche modificati. Sarebbe complicato adattarli a un gruppo, scrivere partiture, spiegare come generare questi suoni: per quello sono finito a suonare da solo, credo.

L’isolamento da pandemia ha contribuito?
No, lo facevo da tempo. Era proprio una cosa pensata per i bambini e il margine di manovra era ridotto, ho dovuto inventare qualcosa. I piccoli ascoltano, sono affascinati. Avevo una mezza idea di trovare un modo di fare qualcosa per i bambini per aiutarli ad addormentarsi con le luci e suoni. Quindi non sono pezzi spaventosi: le Berceuses sono solari, vivaci, i quattro Nocturnes  invece sono un po’ più scuri ma mai minacciosi.

Quali altri strumenti ci sono nel suo set?
Ho cominciato a usare la cetra dal vivo, ne ho due. Poi uso un organetto indiano, che aziono con una gamba. Uso anche l'armonica bocca, che ho modificato per avere microintervalli. La cetra è suonata con l'archetto, per fare suoni lunghi, delle specie di cluster. La difficoltà è avere l'indipendenza di tutti gli arti sui vari strumenti, specialmente quando le mani tengono tempi diversi, con rubati, come in certe tradizioni musicali etniche. La performance non è semplice improvvisazione ma è una ricerca creativa: non è solo un gioco.

L’esecuzione in solitaria, non dà dipendenza, rendendo magari difficile la collaborazione in un gruppo?
No, ho sempre avuto progetti in parallelo anche più jazz. Faccio un po' fatica quando devo suonare in formazioni diverse in giorni vicini perché devo entrare di colpo in una dimensione diversa: amo le due cose ma passare da uno all'altro è difficile.

E come reagisce il pubblico alla sua proposta solista? La percussione, dicevamo con Gregorio Di Trapani, è una comunicazione «primitiva» e piacevole, che attira il pubblico.
Penso che dal vivo sia interessante vedere la mia performance: per ora ho fatto pochi concerti, sono ancora in rodaggio. Ho notato quali sono i pezzi che funzionano e quali meno. I brani sono molto tranquilli e la gente entra in trance, si rilassa. Quando finisce il pezzo spesso non ha l’istinto di applaudire; i brani poi sul disco durano pochi minuti, tre o quattro, al massimo sei mentre dal vivo li collego senza interruzione. Ho in mente le composizioni, che conosco a memoria, e la scaletta, ma poi ogni volta  è diverso. È come usare una paletta di colori: ci sono vari elementi evocati dagli strumenti che di volta in volta uso, facendoli intrecciare.

Che musica sta ascoltando, di questi tempi?
Sto ascoltando cose pop, un po' di elettronica, un musicista canadese che si chiama Caribou, oppure  Roisin Murphy: è musica che mi interessa. Il mio setting si sta sviluppando integrando l’elettrico tramite degli effetti e vorrei fare canzoni ancora più minimali. Sarà una cosa difficile da produrre, ci vorrà preparazione; mi sono comprato un’interfaccia e registro sul computer. Lo faccio al locale di studio, come prendere appunti, poi una volta che ho il pezzo lo registrerò professionalmente in studio con multitraccia e tecnico. Sono pezzi che chiamo, appunto, «canzoni»... Vorrei creare brani che attirino l’interesse  e accessibili a chiunque, mescolare suoni astratti e componenti metronomici e il mio obiettivo, è poi invitare degli ospiti e delle voci, degli strumenti. Per coinvolgere i giovani penso bisogni produrre la musica in una qualità sonora nella quale non siano del tutto disorientati. Comunque ascolto anche jazz: mi piace riascoltare Don Cherry e Jon Appleton che facevano dell'elettronica molto particolare: poi Anthony Braxton con Wadada Leo Smith e Leroy Jenkins, e poi i grandi batteristi come Tony Oxley.

Tra le sue attività c’è anche quella di organizzatore di concerti...
Sto organizzando un piccolo festival nel Locarnese, Éther, portando le persone ad ascoltare proposte musicali di nicchia in località suggestive come nella cappella Gruppaldo o nella natura presso il mulino del Brumo.  L’edizione dello scorso anno è andata benissimo, c'erano 90 persone per concerto, anche se la cappella é piccolissima la gente rimaneva fuori ad ascoltare. Lo farò ancora riproponendo questo mix musicale a 360 gradi. Mi sembra che manchino manifestazioni di questo tipo nel Locarnese, come manca un club che proponga questo tipo di musica. Come organizzatori c'è un aspetto sociale da curare: i concerti durano mezz'ora, ci sono pause di un'ora che vanno gestite nel baretto. Una cosa che mi è molto piaciuta è stata «La Straordinaria» di Lugano: è una struttura interessante che bisognerebbe rendere fissa. Mi ricorda la scena musicale di Basilea. Io ho vissuto a Basilea e a Zurigo: in Ticino l’atmosfera è un po' meno vivace, c'è movimento solo d'estate.

Torniamo a parlare della sua batteria...
La voglia di trasformare la batteria è condivisa da molti batteristi nella storia del jazz. Se si guarda le origini della batteria stessa, è un assemblaggio: il rullante è europeo, i piatti sono asiatici, di origine turca e cinese, i tom sono africani, e il tutto è stato assemblato in America. Era una sperimentazione di timbri dall'inizio, che poi si è espansa. Io ho cercato con l'uso dell'archetto e altre tecniche di trovare vari sistemi per prolungare il suono. Una delle mie invenzioni è  un filo attaccato con una ventosa alla pelle del tamburo. Si fa suonare il filo tendendolo e sfregandolo con l’archetto: il tamburo diventa una specie di banjo suonato come un violino. Tempo fa era venuto ad ascoltarmi un compositore svizzero molto noto, Jost Meier , che voleva fare un pezzo di percussioni per un quartetto di Berna. Era venuto da me per farsi mostrare varie possibilità di produzione di suoni. Già allora ne avevo un arsenale di inventati per le mie composizioni, e lui prese annotazioni per ispirazione, e ha scritto il quartetto. Qualche tempo dopo, quando l'ho rivisto mi aveva detto «Purtroppo ne abbiamo potuto fare  ben poco, perché faticavano a suonare»: non riuscivano a riprodurre quei suoni che avevo inventato.

Suter, qui però usciamo dal jazz ed entriamo nella musica contemporanea...
È una musica che ascolto e che mi piace molto. Compositori quali Satie, Ligeti, Feldmann o Scelsi hanno senz’altro influenzato il mio lavoro. Ascoltando però opere di classica contemporanea scritte per percussione sono rimasto per lo più deluso. Le percussioni sono usate in modo convenzionale e spesso manca un approfondita ricerca timbrica sui singoli strumenti. In questo senso la mia attitudine è senz’altro jazz, dove interprete e compositore sono un tutt’uno indiscindibile in un gesto musicale di composizione istantanea, improvvisazione o semplicemente autentico.