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Inés Suárez, la mujer valiente

Plasencia, famosa per una matrioska architettonica di due cattedrali incastonate una nell’altra, ha contribuito alla Conquista con una delle rare protagoniste femminili di questa epopea di maschi alfa, Inés Suárez, vedova di un soldato di Pizarro che seguì in Cile Pedro di Valdivia di cui era diventata l’amante, conquistandosi la stima dei soldati per le sue capacità militari.

Nel 1541, quando in assenza di Valdivia migliaia di araucanos assaltarono Santiago de la Nueva Extremadura, Inès decapitò, o fece decapitare, sette ostaggi, dopodiché lanciò le loro teste nel campo nemico facendo inorridire i ribelli che si diedero alla fuga. Valdivia la premiò pubblicamente, salvo abbandonarla anni dopo per ordine del viceré, quando un sacerdote ordinò a lui di far venire la moglie spagnola in Cile e a lei di sposarsi con un capitano spagnolo.

Ce n’era più che abbastanza per fare di questa mujer valiente la protagonista del romanzo Inés dell’anima mia di Isabel Allende, seguita da una serie televisiva di successo.


Il cuore dell’Estremadura lungo la Ruta dei conquistadores

Le tracce insanguinate che punteggiano la storia, sono sempre più ripercorse dai turisti che non tenute in considerazione dai locali che ancora oggi abitano all’ombra dei valorosi… scopritori
/ 20/05/2024
Enrico Martino, testo e foto

Francisco Pizarro arriva sempre a las cinco de la tarde, quando l’ombra del suo monumento, elmo piumato e cavallo inclusi, cavalca ai piedi della vecchia chiesa gotica di San Martìn dove aveva radunato – al richiamo di un irresistibile «Venite con me e vi arricchirete» – gli uomini della muy noble y leal Trujillo, una ruvida cittadina irta di torri nel cuore dell’Estremadura. Il seguito lo riassume una turbolenta storia di famiglia scolpita sui bassorilievi dell’imponente Palacio de la Conquista, popolati da «selvaggi» in catene, castelli, stendardi, leoni di Castiglia a volontà. Ci sono anche i ritratti della coppia che lo ha costruito, Hernando Pizarro – fratello di Francisco – passato alla storia come il conquistador del Perù, sua moglie Francisca, figlia di Francisco e dunque sua nipote, ma anche nipote dell’ultimo imperatore Inca, Atahualpa, così i soldi restavano in famiglia.

È il finale di un’avventura da capogiro, la conquista del Perù con centottanta uomini e trentasette cavalli che a Cajamarca, nel 1531, catturarono a tradimento Atahualpa (sconfiggendo un esercito di trentamila uomini), per poi strangolarlo senza pietà con la garrota, dopo avergli estorto uno spropositato riscatto di ottanta metri cubi d’oro che riempirono la «Stanza del Tesoro» in cui era stato imprigionato. Era solo l’inizio di una feroce epopea che scatenò tra i vincitori un’infernale faida di vendette, durante la quale venne ammazzato anche Francisco: «dei quattro fratelli Pizarro sopravvisse solo Hernando, l’unico figlio legittimo» racconta una guida che conosce come pochi le storie di Trujillo, «Tieni presente che qui c’era ancora lo ius primae noctis (ndr: trattasi del diritto dei nobili di deflorare le vergini dei sudditi): non è una leyenda negra».

Tra conquistadores e descubridores

Fieramente eretto sul proprio cavallo in uno stile vagamente a metà tra Salvador Dalì e Paolo Uccello, Don Francisco Pizarro non sembra curarsi troppo di queste meschinità, mentre il suo sguardo pare vagamente schifato, quando una ragazza gli passa davanti cantando a squarciagola «Yo soy una chica ye-ye». Per anni i concittadini si sono un po’ vergognati di questa statua piuttosto ingombrante, storicamente parlando: un grumo di bronzo di violenza, coraggio e testardaggine.

Il conquistador è stato «riabilitato» solo grazie ai turisti attratti dalla ruvida cittadina irta di torri. Che poi, mormorano le malelingue, non è neanche detto che sia lui. Per molti, la scultura, opera dell’americano Charles Rumsey, rappresenterebbe in realtà Hernán Cortés; rifiutata inizialmente dal Messico, per la scarsa popolarità del personaggio, la statua sarebbe stata poi rapidamente riciclata come Pizarro dalla vedova dell’artista e spedita a Trujillo.

Se il monumento è dubbio sono certamente autentici i palazzi costruiti col sangue e l’argento dove i Conquistadores, qui pudicamente trasformati in Descubridores, gli «Scopritori», progettarono smisurati sogni di grandezza che avrebbero inventato Las Americas. Almeno settecento di loro partirono negli anni proprio da questa «culla dei conquistadores»; «bisogna venire qui per capire la Conquista» dicono alla Cervejeria El Medievo di Plaza Mayor, facce dure e spigolose che ricordano in modo impressionante i volti dei conquistadores nei murales messicani di Orozco e Rivera.

La trasformazione di Truijllo

L’oro del Nuovo Mondo ha trasformato Truijllo in un gioiello rinascimentale dove il tempo sembra essersi fermato e ancora oggi monache nascoste dietro le grate di ferrigni conventi decidono se sei degno di visitare il loro chiostro. Risalendo le stradine che si arrampicano verso l’Alcazaba, il vecchio castello arabo che domina la pianura, una targa ricorda Francisco de Orellana, primo europeo a scoprire il Rio delle Amazzoni.

Nel Centro de Los Descubridores l’albero di una nave si alza verso la cupola della Iglesia de la preciosa sangre, un nome involontariamente appropriato per raccontare questa epopea extremeña e i suoi protagonisti, mentre una casa-museo ricostruisce la vita di Pizarro vicino alla chiesa gotica di Santa Maria la Major probabilmente costruita sopra una moschea araba.

«Civilizzarono per cristianizzare e cristianizzarono per civilizzare» è scritto nel dizionario bibliografico dei Missionari d’Estremadura, data 1993, non 1493. Ma perché proprio da questa regione – che neanche si affaccia sul mare – migliaia di sognatori e spietati avventurieri all’inizio del Cinquecento partirono lungo la strada che si perdeva in un orizzonte d’erba verso il porto di Siviglia? Molti di loro erano squattrinati nobilotti matamoros, «ammazzamori» pericolosamente disoccupati dopo la Reconquista di Granada, e la regina Isabella decise di dare letteralmente un taglio alle loro faide decapitandone le torri, e decretando così, senza saperlo, la fine di un paio di imperi precolombiani.

Il rapporto tra l’Estremadura e l’America iniziò nel 1501 quando Fray Nicolas De Ovando, di una nobile famiglia di Càceres, fu nominato primo governatore delle Indie e pensò bene di farsi raggiungere da parenti e amici a Santo Domingo, nell’isola di Hispaniola. Due di loro erano destinati a diventare famosi, Hernan Cortés e Francisco Pizarro, ma furono in molti a decidere di giocarsi la vita imbarcandosi per il Nuovo Mondo per «inventare una ventina di repubbliche latinoamericane» come si dice ancora oggi in Estremadura.

Una Madonna che vale come l’oro

Con loro partì, almeno virtualmente, anche la Madonna di Guadalupe, l’unica capace di unire, oltre all’oro, i conquistadores nell’incrollabile devozione per una statua di legno che, secondo la tradizione, rimase nascosta per quasi sei secoli prima di essere salvata dai Mori e poi opportunamente ritrovata sulle colline di Guadalupe durante la Reconquista della Spagna.

In cambio, dopo avere dato una mano a re, navigatori e guerrieri, la Guadalupe è diventata «patrona dell’Estremadura e regina delle Americhe» e oggi, ricoperta di broccati e gioielli, sta su un trono d’oro circondato da santi nel cuore di una foresta di torrette, campanili e pinnacoli in stile gótico-mudéjar del Real Monasterio di Santa Maria di Guadalupe. Tra queste mura, oggi Patrimonio UNESCO, Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona negoziarono con Colombo il finanziamento della sua spedizione, e lui, come tanti altri, al ritorno venne qui in pellegrinaggio, al pari di Cervantes che lasciò come ex voto le catene della sua prigionia tra i pirati barbareschi di Algeri.

Trujillo ci ha messo i guerrieri, e Guadalupe, i monaci; così ricordano gli extremeños, orgogliosi di questo luogo dell’anima costellato da un arcipelago di isole di pietra, borghi, conventi, chiese e castelli ferrigni ancora impregnati di storie tormentate e sogni di grandezza, mentre nel silenzioso sottobosco della dehesa pascolano maiali che attendono rassegnati un futuro da raffinati prosciutti; oro vivo li chiamano.

Tra toreri e artisti

Solo i tori possono vantare un legame ancora più intimo, di cui farebbero volentieri a meno, con chi abita da queste parti. Per capirlo basta imbattersi in qualche plaza de toros movil di ferro e legno, monumenti provvisori sempre più rari innalzati nel cuore di qualche fiera di paese dove toreri che non diventeranno mai famosi entrano in scena con un traje de luz, lo scintillante costume sempre più liso, sperando di sfangarla ancora una volta.

Anche sotto i portici medioevali della Plaza Mayor, al «Circulo de artistas» di Garrovillas, pensionati e avventori seguono la corrida virtual trasmessa in diretta da un vetusto televisore appeso a una parete, gridando entusiasti oreja (orecchia), a ogni prodezza del matador. «Loro, i tori, almeno vivono bene per quattro anni e muoiono combattendo da valientes; gli altri bovini vanno al mattatoio dopo aver passato nove mesi rinchiusi in una stalla» ti dicono con la rassegnata pazienza di chi sa che uno che viene da fuori non potrà mai capire.

Hernán Cortés e Quetzalcoatl

Il castello che sovrasta il teatro romano di Medellìn incastonato nella collina annuncia la patria di un personaggio più complesso e colto di Pizarro ma altrettanto spietato. Più in basso, da delicate aiuole davanti al municipio emerge il monumento all’uomo nato proprio qui, e senza il quale è impossibile parlare della Conquista: Hernán Cortés riuscì a distruggere l’impero azteco con l’unico aiuto di armi da fuoco e cavalli, sconosciuti agli aztechi, ma soprattutto grazie a una profezia che annunciava il ritorno dal mare di un dio barbuto, Quetzalcoatl, e della Malinche, una schiava che diventò sua amante, interprete e abile consigliera. Ancora oggi in Messico il suo nome è sinonimo di tradimento perché fu lei ad aiutarlo a scoprire i punti deboli dell’imperatore azteco Montezuma, un filosofo introverso o forse solo rassegnato al compiersi di un destino obbligato.

Nel 1519, solo due anni dopo lo sbarco di Cortés, con 550 soldati e 15 cavalli, nei pressi dell’attuale Veracruz, della capitale azteca Tenochtitlàn restavano distese di rovine fumanti e decine di migliaia di morti; ultimo e definitivo capitolo di una marcia ai limiti della follia verso un arido altipiano punteggiato da vulcani per conquistare un impero potente di cui non sapeva quasi nulla.

Gli altri conquistatori

Non lontano, a Villanueva de la Serena solo un monumento commemora Pedro de Valdivia il conquistador del Cile che nel 1541 fondò Santiago de la Nueva Extremadura, l’attuale Santiago, per poi venire ucciso dalla strenua resistenza degli araucani.

Jerez de los Caballeros alla vicina Andalusia deve il bianco delle sue case e il nome ai Templari che hanno lasciato una fortezza del XIII secolo dove sventolano ancora le loro bandiere su una torre dal soprannome inequivocabile, Sangrienta, dove secondo una leggenda, sarebbero stati sgozzati gli ultimi cavalieri che avevano resistito a Ferdinando IV di Castiglia.

Il nuovo mondo di Vasco Núñez de Balboa

La skyline è dominata da due campanili legati a un paio di altri protagonisti della Conquista, Hernando de Soto, sepolto nella chiesa barocca di San Miguel, che conquistò la Florida e risalì il Mississippi, mentre Vasco Núñez de Balboa – primo europeo a raggiungere l’Oceano Pacifico nel 1513 provando che l’America era un nuovo continente – fu battezzato nella chiesa di San Bartolomé dietro una facciata che il sole trasforma in un retablo (pala d’altare) di colorate ceramiche. Come tanti extremeños cercava nel Nuevo Mundo un riscatto alla povertà e partì nascondendosi in un barile per sfuggire ai debitori; poi guidò una spedizione nel Darién, l’impenetrabile selva dell’Istmo di Panama. Cercava l’oro dando la caccia agli indios con feroci mastini e loro ricambiavano versando oro fuso in bocca ai prigionieri spagnoli, «per saziare la loro avidità». Alla fine gli autoctoni, per togliersi di torno quegli invasati, li portarono sulle rive di un’immensa distesa d’acqua salata che Balboa ribattezzò Mar del Sur, dicendo che oltre il mare c’era un paese lastricato d’oro, il favoloso impero Inca. Il suo luogotenente Francisco Pizarro prese nota e più tardi catturò Balboa, poi giustiziato con un’opportuna accusa di sedizione, per poter raggiungere il Perù senza rivali.

Come i tori, valientes, anche qualche conquistatore si è aggiudicato questo termine, che significa letteralmente «coraggioso», un’espressione ancora usata da molti in Estremadura. Anche se oggi è facile dare un giudizio impietoso sulla Conquista, forse proprio questa parola – che nasconde disperazione, orgoglio, coraggio e spietatezza – è la chiave per capire una terra dura, scandita da «tre mesi d’inverno e nove d’inferno».