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La rivincita musicale dei favolosi anni 80

Molti degli artisti contemporanei guardano a quel periodo ricchissimo di musica e di innovazioni
/ 20/05/2024
Guido Mariani

Se con un’immaginaria macchina del tempo tornassimo indietro agli anni 80, potremmo rivivere una stagione musicale straordinaria, ma forse ci sorprenderemmo del giudizio che i contemporanei, soprattutto i cosiddetti esperti, davano degli artisti che dominavano le classifiche.

Finita la fiammata del punk, esauritasi l’esuberante trasgressione della disco music, conclusasi l’epoca d’oro del progressive, in molti pensarono di trovarsi in una stagione di riflusso e di superficialità, sancita dall’inizio dell’era del video-clip che obbligava gli artisti ad avere un’immagine accattivante che facesse presa sul pubblico televisivo. Le star che avevano definito a vari livelli l’era del rock erano o scomparse o in (apparente) declino. Ci sorprenderemmo soprattutto a leggere le recensioni dell’epoca che vedevano tra gli artisti più odiati i Queen, giudicati un clone kitsch dei Led Zeppelin, i Police, visti come dei bellocci imitatori del punk, o gli AC/DC, marchiati come finiti dopo la morte del loro cantante Bon Scott. «L’unica emozione che mi provocano i Queen è il fervente desiderio che Brian May si tagli i capelli» scriveva nel 1985 uno spocchioso critico della rivista inglese «Melody Maker» (nella foto la copertina dell’album The Miracle del 1989). Per non parlare di artisti che erano ritenuti in crisi. La svolta mistica di Bob Dylan venne vissuta come un tradimento, le sperimentazioni di Lou Reed e Neil Young furono viste come fallimentari tentativi di rimanere giovani. «Un vampiro senza denti sul viale del tramonto» sentenziò un giornalista parlando dell’ex leader dei Velvet Underground. Non si salvò neppure David Bowie, «vendutosi» alla musica ballabile con l’album Let’s Dance.

Col senno di poi non possiamo che sorridere, interpretare la contemporaneità non è mai facile. Ma c’è da chiedersi come mai ai Grammy Awards del 1981 trionfò Christopher Cross e vennero ignorati due album che hanno fatto la storia come The Wall dei Pink Floyd o Back in Black degli AC/DC.

Gli anni 80 hanno avuto però, nel tempo, la loro rivincita. Lo dimostra il crescente numero di documentari, libri, spettacoli e film dedicati a quella stagione. A gennaio Netflix ha presentato il documentario La notte che ha cambiato il pop che ricorda la straordinaria session che portò nel gennaio 1985, all’incisione del brano benefico We Are The World, scritto da Lionel Richie e Michael Jackson e registrato a Los Angeles, sotto la regia di Quincy Jones, da quasi tutte le più grandi star dell’epoca come Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Billy Joel, Diana Ross e Cindy Lauper (Prince rifiutò e l’emergente Madonna non venne invitata). Michael Jackson era reduce dal successo portentoso di Thriller, Lionel Richie aveva venduto 10 milioni di copie con Can’t Slow Down, Springsteen aveva appena finito un trionfale tour per il lancio di Born in the U.S.A. Quincy Jones ritenne indispensabile appendere un cartello con scritto: «Lasciate il vostro ego all’entrata». Le tante star in realtà si comportarono benissimo e il successo dell’iniziativa sarà la premessa dell’evento Live Aid organizzato da Bob Geldof per l’estate successiva. Uno dei cantanti presenti a quella session fu il rocker Huey Lewis, noto in Europa soprattutto per la hit The Power of Love colonna sonora di Ritorno al Futuro. Il suo repertorio è il filo conduttore del musical The Heart of Rock and Roll che ha debuttato le scorse settimane a Broadway.

Un altro nuovissimo documentario Thank you, Goodnight (distribuito dalla piattaforma Disney+) celebra invece i Bon Jovi che, dalla metà degli anni 80, suggellarono il successo di un hard rock che sapeva conquistare il pubblico con grinta e melodia. Una moda musicale che fu definita, non senza sarcasmo, «hair metal», facendo riferimento alle capigliature vaporose dei cantanti che all’epoca divennero icone di stile. Quell’epopea è raccontata nell’esilarante libro Nothin’ But a Good Time (uscito in italiano per le edizioni Il Castello) che rievoca senza censura fasti ed eccessi di quel mondo grazie a centinaia di testimonianze dei protagonisti.

Più che essere rivalutati, gli eighties forse non sono mai finiti. Springsteen continua ad essere uno degli artisti live più seguiti del pianeta facendo concorrenza a Taylor Swift che potrebbe essere sua nipote. Sarà anche al centro di un nuovo film biografico proprio dedicato alla sua evoluzione creativa negli anni 80, così come raccontata nel libro Deliver Me from Nowhere di Warren Zanes. Il ruolo del Boss sarà interpretato da Jeremy Allen White, uno tra i nomi più richiesti di Hollywood dopo il successo della serie The Bear. Intanto sappiamo che già da diverso tempo il regista J.J. Abrams è al lavoro per produrre, per conto di Netflix, una fiction in più puntate dedicata alla storia di un’altra band che nacque in quel decennio: gli U2. La serie dovrebbe essere scritta da Anthony McCarten che ha già firmato la sceneggiatura del biopic dei Queen, Bohemian Rhapsody. Bono è reduce dal successo editoriale della sua auto-biografia Surrender e la band irlandese ha alzato l’asticella della spettacolarità degli show dal vivo con i concerti, tutti sold-out, tenuti nell’avveniristica Sfera di Las Vegas. Non solo memoria. Tanti artisti di oggi si ispirano alla musica di quegli anni, dal produttore re Mida Max Martin, il vero burattinaio del pop contemporaneo, a star come Lady Gaga, The Weeknd o Dua Lipa.

Non è quindi solo un effetto nostalgia. Gli anni 80 furono ricchissimi di musica e di innovazioni stilistiche e tecnologiche e in tutte queste rievocazioni c’è più sorpresa e scoperta che malinconia.