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In sella con un braccio meccanico

Altri campioni: Matteo Conconi, atleta di mountain bike, ama allenarsi sui sentieri del Monte Generoso e progettare prototipi sempre più performanti
/ 13/05/2024
Davide Bogiani

Toccano i cinquanta chilometri orari lungo pendii fino al quaranta percento di pendenza. Le ruote rimbalzano, si agitano, pizzicano i sassi, smuovono il pietrisco e sollevano un polverone al loro passaggio. Poi la calma. I rumori si smorzano, l’aria diventa di nuovo limpida.

Ci troviamo sui sentieri del Monte Generoso, dove Matteo Conconi viene spesso ad allenarsi con la sua mountain bike. «Vedi quel polverone dietro di me?», chiede sorridente Matteo. «Ecco, lì dentro mi sono ritrovato una decina di anni fa. Ho fatto molta fatica ad accettare la mia nuova condizione. Il sostegno della famiglia mi ha spronato a pormi nuovi obiettivi, e con il tempo ho ritrovato di nuovo la mia serenità».

Era il 2013. Matteo sta lavorando alla Stazione FFS di smistamento a Chiasso. È su una navicella, così vengono chiamate le macchine di lavoro che permettono di sollevare gli operatori che lavorano in quota. A pochi metri da lui passano i fili della corrente ferroviaria. Il 33enne (ai tempi aveva 21 anni) inavvertitamente entra in contatto con la corrente elettrica che gli penetra nel corpo con una furia di 15mila Volt. La scarica è violentissima, e Matteo si ritrova improvvisamente in un limbo tra la vita e la morte. Il risveglio è il momento più difficile. Dopo circa due mesi in cure intensive, gli viene amputato il braccio sinistro, mentre il destro è gravemente danneggiato.

«Quando mi sono svegliato, subito mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita da lì in poi. Oltretutto, beffa del destino, ero mancino. Ho scelto di reagire. E così ho fatto», spiega Matteo. Nel percorso riabilitativo, che lo vede per un lungo periodo nella Clinica riabilitativa a Bellikon, in Svizzera tedesca, riceve un grande sostegno dalla sua famiglia. «Mio fratello e mio papà mi hanno spronato a reagire, mia nonna mi ha dato molto affetto, mentre il cosiddetto pezzo forte è sicuramente stata mia mamma».

Trascorrono alcuni mesi, Matteo subisce molte operazioni e riceve una protesi al braccio sinistro. Rientra in Ticino dove, dopo parecchio tempo, ricomincerà a lavorare per lo stesso datore di lavoro, ma in un’altra funzione. Vorrebbe tornare anche al suo grande amore; la moto. Ma deve rinunciare. «Tecnicamente sarebbe stato possibile, ma negli anni, dopo il mio incidente, il traffico è decisamente aumentato. La sicurezza stradale dipende da molti fattori esterni, imprevedibili». Matteo allora si interessa per poter iniziare un’attività sportiva nel Cantone, cercando una possibilità tra i vari club. Sul territorio ticinese vengono proposte molte attività sportive per persone con andicap, attraverso club per persone con disabilità e anche attraverso club per normodotati con un’apertura inclusiva. Ma Matteo non trova nulla che fa al caso suo.

«Se per una persona con le gambe amputate esistono parecchie offerte sportive, come ad esempio il basket in carrozzella o l’handbike, tanto per citarne alcune, per una persona come me, con un braccio amputato, le attività sono davvero poche». Matteo decide quindi di fare di testa sua. Riprende la passione delle due ruote, ma questa volta senza il motore. Si fa costruire un prototipo di protesi con aggancio al manubrio, e sale in sella alla bicicletta. Solo pochi mesi più tardi inizia a praticare seriamente le discipline di enduro e di downhill (ndr. l’enduro è una disciplina versatile, che richiede abilità sia in salita sia in discesa, mentre il downhill consiste nella discesa lungo percorsi sconnessi, come sentieri).

Con lui, lungo i pendii del Generoso, sfrecciano anche alcuni suoi amici. Assieme decidono di partecipare ad alcune gare. Viene fondata una squadra, il Boardergravity Team, con la quale inizia a gareggiare, anche all’estero. Non esistono categorie per il suo tipo di andicap. Matteo gareggia quindi tra i normodotati, e questa per lui è già una vittoria.

L’esperienza maturata negli anni lo spinge a migliorare costantemente la protesi che utilizza in bicicletta. «Ho cambiato ben sei volte il braccio, cercando ogni volta di renderlo più performante. La protesi che utilizzo attualmente presenta un aggancio a sfera sul manubrio che fa da polso. Lungo il braccio artificiale mi sono fatto montare una sospensione ad aria e olio, esattamente come quelle delle MTB biammortizzate, che permettono di attutire i colpi. Attualmente sto testando un nuovo braccio con un ammortizzatore a molla. La protesi non è fissa al manubrio, ma posso metterla e staccarla quando lo desidero, garantendo una maggiore sicurezza in caso di eventuale caduta», ci spiega Matteo.

Dalla polvere, dunque, al successo. Anche sociale. Attraverso il suo Team, Matteo è riuscito a coinvolgere persone normodotate nell’attività pensata inizialmente per lui, proponendo in un certo senso il principio dell’inclusione al contrario. E ora, il Boardergravity Team, sembra non avere intenzione di fermarsi. «Il mio prossimo obiettivo è quello di fare montare in sella un mio amico cieco per fargli provare l’ebbrezza del downhill». Matteo ci spiega che da alcuni mesi sta lavorando a un prototipo di MTB Tandem, cercando di trasformarlo in vista di costruirne uno omologato.

Matteo Conconi ha ritrovato la forza per ricominciare. Ha avuto coraggio. Ha avuto successo. Ed è questo che vuole trasmettere a chi si trova in una situazione simile. Le gare di downhill, di enduro, il Boardergravity Team sono un traguardo, ma anche un mezzo per dare coraggio e motivazione. E forse è anche un appello per rendere le associazioni ancora più inclusive.