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Dove e quando

Apropos Hodler. Aktuelle Blicke auf eine Ikone, Zurigo, Kunsthaus.

Fino al 30 giugno 2024. Ma-me, ve-do 10.00-18.00; gio 10.00-20.00.

www.kunsthaus.ch


Apropos Hodler, sguardi attuali su un’icona

Partendo dall’artista svizzero il Kunsthaus di Zurigo ha allestito una riflessione sulla contemporaneità
/ 06/05/2024
Elio Schenini

Diciamolo subito, Apropos Hodler al Kunsthaus di Zurigo non è, come ci si potrebbe aspettare, una classica mostra di taglio storico sull’artista svizzero più celebre, quello per intenderci delle teatrali coreografie simboliste in cui le figure sono distribuite sulla tela secondo i principi della ripetizione e della simmetria; quello dei possenti e fieri picchieri confederati che, pur sconfitti, abbandonano con virile compostezza il campo di battaglia a Marignano; quello dei lancinanti ritratti dell’amante Valentine Gode-Darel malata di cancro, osservata con imperturbabile ossessione fino all’esalazione dell’ultimo respiro; quello dei laghi e dei paesaggi alpini intagliati ruvidamente nel colore che con il passare degli anni si fanno sempre più scarni e metafisici.

Non che tutto questo non ci sia, a dire il vero, ma la selezione di opere di Hodler presenti in questa mostra, alcune delle quali notevoli e poco viste, serve più che altro a imbastire un discorso sulla contemporaneità attraverso il confronto con le opere di una trentina di artisti che sono state scelte e affiancate a quelle di Hodler da un team curatoriale che comprende, oltre alle due curatrici del Kunsthaus Sandra Gianfreda e Cathérine Hug, gli artisti Sabian Baumann, Ishita Charaborty, Nicolas Party e il collettivo artistico RELAX, fondato nel 1983 da Marie-Antoinette Chiarenza e Daniel Hauser. E qui sta probabilmente il primo problema di questa mostra, perché al di là delle intenzioni, in astratto sicuramente apprezzabili, la scelta di affrontare, «un mondo diventato sempre più complesso», come lo definisce la direttrice del Kunsthaus nella sua introduzione al catalogo, con un progetto basato su un autorialità collettiva non sembra aver prodotto gli esiti sperati (tra l’altro, detto per inciso, l’idea di una crescente complessità del mondo è un luogo comune così ricorrente nel discorso pubblico che prima o poi andrebbe sottoposta a verifica).

La mostra trasmette così fin dall’ingresso un’impressione di confusione e si avverte la mancanza di una visione unitaria già a partire dall’articolazione spaziale del percorso espositivo. Impressione che viene ribadita dalla suddivisione tematica in quattro sezioni piuttosto vaghe e dai confini incerti: paesaggi, corporeità, appartenenze e enigmaticità/trascendenza. Anche la ridondanza con cui alcuni artisti ricorrono in più punti del percorso espositivo, in alcuni casi, finendo per essere sovrarappresentati, non contribuisce alla chiarezza dell’insieme e appare totalmente superflua rispetto all’economia della mostra. Più in generale, a parte qualche rara eccezione, appare piuttosto labile il rapporto tra le opere degli artisti e quelle di Hodler, limitandosi in molti casi a una semplice analogia di soggetto.

Inevitabile, almeno per chi frequenta le mostre d’arte, il confronto tra questa mostra e quella curata lo scorso anno dall’artista svizzero Ugo Rondinone al Musée d’art et d’histoire di Ginevra su invito del suo direttore, Marc Olivier Wahler, impegnato da alcuni anni a svecchiare la compassata istituzione ginevrina. Una mostra, lodata da tutti, in cui Rondinone ha messo in dialogo alcune sue opere con quelle di Hodler e Vallotton oltre che con altri oggetti presenti nella collezione del museo. Del resto è la stessa direttrice del Kunsthaus a ricordare il ruolo di stimolo che questo precedente innovativo nella presentazione di una collezione museale ha avuto per l’elaborazione del progetto zurighese. Tuttavia, mentre la mostra ginevrina era improntata della sensibilità poetica di un artista che nel rileggere l’opera e il contesto in cui hanno operato i suoi due illustri predecessori ha operato con originalità e parsimonia di mezzi, quella di Zurigo, al contrario, appare contrassegnata da un’accumulazione dispersiva e in alcuni casi da una certa sguaiatezza visiva frutto di un’inutile volontà di spettacolarizzazione e di una malintesa idea di riattualizzazione. Valga su tutti l’esempio dei due quadri di Hodler che l’artista Nicolas Party ha deciso di appendere sopra due suoi enormi dipinti murali realizzati a pastello, che come due scenografiche tappezzerie finiscono per annullare la forza evocativa del rarefatto simbolismo hodleriano. Ma è in qualche modo tutta la mostra a dare l’impressione di essere vittima di una certa ambiguità di fondo: da un lato si propone di decostruire la figura Hodler, di mostrarne anche il lato «oscuro», ma dall’altro ha bisogno di lui per garantirsi una qualità e un richiamo popolare che molti degli altri artisti che lo affiancano non hanno.

Detto questo, va aggiunto che la scelta di non accontentarsi di una tranquilla mostra «storica» sul grande padre dell’arte svizzera è indubbiamente coraggiosa e testimonia la volontà di rinnovamento della principale istituzione museale svizzera di cui si sta facendo carico la nuova direttrice Ann Deemester, soprattutto dopo le recenti polemiche legate al caso della collezione Bührle.

Che Hodler sia stato un personaggio contraddittorio, in cui a un lato progressista e aperto alle novità si affianca una dimensione più conservatrice, è indubbio. Non a caso è da sempre il pittore preferito dall’ex leader dell’UDC Christoph Blocher che ne è anche uno dei principali collezionisti. Per alcune generazioni di svizzeri, i dipinti di Hodler, molti dei quali realizzati su commissione, hanno dato corpo ai miti fondativi della patria e alla sua volontà di fare di questo Paese frammentato una nazione, con tutto il carico di enfasi retorica che questa operazione comporta. Non si può inoltre non riconoscere che nei suoi quadri trovasse incarnazione la visione di una società patriarcale in cui le donne avevano un ruolo subalterno. Del resto, Hodler, non aveva grande considerazione per le donne artiste e si opponeva alla loro piena ammissione all’interno della Società dei pittori e degli scultori svizzeri.

Quell’Hodler lì, però, l’aveva già messo al suo posto, ovvero in un deposito museale, Marie Antoinette Chiarenza negli anni Novanta, mentre lei si incamminava fiera e decisa con un’ascia appoggiata sulle spalle, in una posa che richiamava La rivoluzione siamo noi di Joseph Beuys. Una delle poche opere in mostra che fa davvero i conti e con fermezza con il lato «oscuro» di Hodler.