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Guadagnino delude

Il suo film Challengers è ora nelle sale
/ 29/04/2024
Nicola Mazzi

Match Point di Woody Allen? Face/Off di John Woo? The Dreamers di Bernardo Bertolucci? No, Challengers (nella foto la locandina) di Luca Guadagnino è più vicino a Holly e Benji, la famosa animazione sul calcio che spopolava negli anni 80 e 90.

Il film, lo ricordiamo, avrebbe dovuto inaugurare l’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ma, a causa dello sciopero degli attori dello scorso anno, la sua uscita è stata spostata di diversi mesi. Finalmente, in questi giorni, Challengers è arrivato nelle sale cinematografiche di tutto il mondo. E lo ha fatto alla grande, con ottime critiche e con il 95% di apprezzamenti sull’aggregatore Rottent Tomatoes.

L’opera di Guadagnino racconta la storia di Tashi (Zendaya reduce dalla seconda parte di Dune), una campionessa di tennis che a causa di un infortunio è costretta a diventare allenatrice. Tashi sta cercando di fare di suo marito Art (Mike Faist) una stella del tennis, ma dopo la sconfitta in una partita importante, l’uomo si ritrova a giocare in un torneo di seconda fascia per cercare di riguadagnare posizioni. Tra gli sfidanti c’è anche Patrick (Josh O’Connor che abbiamo apprezzato ne La Chimera), ex fidanzato di Tashi ed ex migliore amico di Art. E mentre, grazie a diversi salti temporali, il loro passato si fa presente, anche la tensione sale, portando la donna a scegliere tra l’uno e l’altro.

È quindi un film sportivo. Almeno, a un primo livello è quel che sembrerebbe. Ma al regista non interessa lo sport in quanto tale (siamo lontani dalla fedeltà filologica di Borg McEnroe), l’ambientazione è solo un pretesto per evidenziare altro e per enfatizzare il triangolo amoroso e soprattutto le relazioni di potere tra i tre personaggi. Lo sport è funzionale anche a mostrare i corpi dei giovani: i muscoli e le cicatrici, metafore di desiderio e violenza. Il tennis, come dice la ragazza a un certo punto, «è una relazione». E infatti si parla di relazioni a tre. Proprio come succedeva in The Dreamers di quello che Guadagnino ha sempre considerato suo padre spirituale: Bertolucci. Ma siamo lontani da quei rapporti sofferti, genuini, liberi e veraci messi sullo schermo nel 2003. Qui è tutto telefonato, scontato, noioso. Si capisce subito il carattere dei tre e la loro evoluzione amorosa. Non ci sono sorprese, nessuna pallina che cade, per sbaglio, nel campo avversario. Anche i tre protagonisti, seppur abbastanza bravi, non si possono paragonare a Green-Garrel-Pitt e alle loro corse folli, alla Jules e Jim, nei corridoi del Louvre.

Challengers punta molto sul virtuosismo registico, come ha sempre fatto Guadagnino. La sua è una regia molto presente e visibile. Estroversa, si potrebbe definire. Di quelle che noti perché virtuosa e piena di inventiva e soluzioni originali, fino alla soggettiva di una pallina da tennis che viene colpita da una parte all’altra del campo. Ma soprattutto usa moltissimo lo slow-motion. E lo fa nelle partite che vengono rallentate così da enfatizzare ogni gesto, a renderle epiche. Un maestro dell’uso del rallentatore è stato John Woo. Il regista di Hong Kong ha raccontato, usando questo strumento di montaggio, storie di criminali e di poliziotti e del loro pericoloso incrocio. Trasformando una scena d’azione in un sogno, una poesia. Guadagnino, invece, straborda, si ripete, insiste con i rallenty seguendo e adeguandosi all’imponente colonna sonora elettronica di Trent Reznor e Atticus Ross. Lo slow-motion, qui, ricorda più l’anime giapponese che il regista di Face/Off. Così come gli sguardi prolungati tra i tre protagonisti, durante il match, hanno i riferimenti diretti in quelli dei giovani calciatori animati quando effettuano la catapulta infernale o il tiro della tigre.

E non è neppure Match Point. Anche se si parla di tennis e di triangoli amorosi. Non lo è per la mancanza di precisione nella costruzione narrativa (in quel caso gli incastri tra causa ed effetto furono congeniati perfettamente), e neppure per la profondità della psicologia umana che Woody Allen riesce a instillare in ogni scena. In Challengers a volte si avverte una certa superficialità nei dialoghi che hanno il solo scopo di far progredire la storia e non riescono quasi mai a dare una sfumatura di carattere ai personaggi.

E allora cosa rimane? La colonna sonora davvero clamorosa, ingombrante, coprente e asfissiante. Per buona parte del film siamo immersi in una discoteca con le immagini che ti fanno perdere di vista il resto. Chi ha avuto la fortuna di vedere Mektoub, My Love: intermezzo di Abdellatif Kechiche sa di che cosa si parla: tre ore e mezza di musica martellante che ti faceva entrare in un loop indescrivibile. Un’esperienza sensoriale che i due curatori della musica di Challengers ci hanno fatto ricordare. Ma questo basta a far sparire dalla testa dello spettatore l’immagine di Holly e Benji, che rincorrono la palla per ore da una parte all’altra del campo? No.