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Storia e memoria nelle vicende di una famiglia ebraica

«Ci accorgiamo con terrore di essere fatti di tante parti, che in noi scorrono geni di morti, di estranei che non abbiamo mai conosciuto, di persone che appena nominate ci abitano dentro e si impossessano del nostro cuore, chiedendoci di non dimenticarle.» (La figlia inutile, p. 178)
/ 29/04/2024
Sabrina Faller

Una storia di famiglia raccontata con urgenza, ma dal respiro quasi epico. E’ il nuovo romanzo della scrittrice fiorentina Laura Forti, La figlia inutile (Guanda). Autrice, drammaturga, traduttrice e giornalista, con il suo Forse mio padre (La Giuntina) ha vinto il Premio Mondello Opera Italiana, Super Mondello e Mondello Giovani 2021. Nota al pubblico della Svizzera Italiana anche per le sue collaborazioni al settore fiction radiofonica di Rete Due, in  La figlia inutile Laura Forti continua a ricomporre il mosaico di una famiglia ebraica dispersa, che è poi la sua. Il libro sarà presentato l’11 maggio a Milano, al Teatro Elfo Puccini, che ha allestito nel 2019 il suo testo L’acrobata in versione teatrale, più volte replicato negli anni.

Come e perché è cominciato questo percorso che ha preso il via con L’acrobata (2019),  è continuato con Forse mio padre (2020) e oggi aggiunge un tassello nuovo con La figlia inutile?
Paradossalmente è un percorso a ritroso perché ho cominciato dall’esilio in Cile, poi ho proseguito con la parte legata alla storia di mia madre, al periodo della guerra e a quando lei si nascose, si fece partigiana, e c’è anche una mia vicenda personale molto forte in Forse mio padre, per poi arrivare alle origini, alla nonna, ma anche a questa famiglia Dresner che dà i valori di riferimento a tutta la famiglia con il patriarca Giulio. Ho iniziato questo percorso perché sentivo che c’erano dei nodi da sciogliere, dei non detti, dei segreti anche piuttosto importanti di diverso tipo, ma tutti hanno in comune il fatto che questa famiglia, come spesso le famiglie che escono da grossi traumi, tendono a rimuovere il dolore, cioè a tramandare soltanto le cose positive o leggendarie o che diano loro prestigio, mentre invece gli aspetti negativi, legati a un dolore o a una verità, vengono tenuti sotto e rimossi. E così anche nel caso di questa nonna, di cui la narrativa familiare ha sempre rimandato un’immagine di figurina esotica, bizzarra, con la collezione di gatti di porcellana, oppure di donna forte, indipendente che ha attraversato le tragedie della storia indenne. Però io ho sempre avuto diffidenza per questo ritratto che mi sembrava forzato, vitalistico ma non corrispondente al vero, anche perché ho conosciuto questa nonna nei suoi aspetti più fragili. Stavo a dormire da lei e la vedevo fare di notte la sonnambula, parlando da sola perché si era risvegliata per i suoi incubi, o quando mi raccontava  i particolari dolorosi di questa storia di esilio che magari altri nipoti non sapevano. E quindi è partita l’esigenza di ricostruire la verità di questo personaggio, di costruirle soprattutto un corpo nel vero senso della parola. Nel mio libro c’è la metafora di questa nonna che si è fatta cremare, quindi la tomba è vuota, bisogna ricostruire un corpo, ma in generale la scrittura restituisce sempre dei corpi ai fantasmi. E quindi cerco di ricostruire l’identità di questa nonna, identità cancellata dall’omertà familiare, ma anche quella di una famiglia in esilio che, dopo aver pensato di trovare casa in Italia, come tante famiglie, dopo le leggi razziali del ’38, è sparita dalla storia italiana. L’operazione è nata così.   

Per intraprendere il suo lavoro di scrittura è evidente che c’è stata una intensa ricerca- o una serie di ricerche- preliminari. Ci dica qualcosa di questo lavoro di ricerca.
Sì, un lavoro di ricerca non facile e fatto negli anni, perché io sto attaccata a questa storia da tantissimo tempo, ne ho scritto sotto varie forme e questi fantasmi mi appartengono. Chiaramente era molto difficile soprattutto per la parte russo-polacca, sono storie lontane nel tempo, piene di buchi, perché pogrom e guerre hanno cancellato tante tracce, quindi c’è stato un lavoro molto intenso sia negli archivi polacchi che in quelli italiani. Nei ringraziamenti cito l’Unicredit che poi era il Credito italiano, la banca in cui lavorò Giulio Dresner, perché gli archivisti sono stati veramente fenomenali a ritrovare materiale su questo che già allora era un personaggio, il ‘piccolo Lenin’, come si faceva chiamare. Fondamentalmente penso che la memoria si debba posare su una base storica. Poi c’è una memoria immaginaria che va a riempire i buchi che questa trama lascia, e infatti nel libro metto spesso dei ‘può darsi’. E quella è l’operazione creativa, riempire i buchi con l’immaginazione e cercare cose che potrebbero essere verosimili. Poi c’è la memoria personale, cioè che cosa prendo io nipote da questo bagaglio di eredità, cosa scelgo di portare nel mio presente, perché molti di questi sentimenti io non li voglio, oppure i valori dei Dresner io non li voglio tutti, perché alcuni contrastano con la mia identità. E allora la scrittura consente anche di ripulire, di fare delle scelte.       

Il focus è sulla nonna materna Elena. Il romanzo si apre sulla tomba di Elena e qui non si può fare a meno di pensare alla tomba di Ofelia nell’Amleto di Shakespeare, che è la tomba di una donna sospettata di suicidio. Anche Elena è tra i suicidi.
La nonna però è morta di morte naturale, anche se ha fatto dei tentativi di suicidio, perché era una persona che sotto questa apparenza di grande forza che a lei piaceva, in realtà era molto fragile. Solo che, dato che per la legge ebraica non ci si può far cremare, allora ci si inventa che la tomba non deve essere messa in mezzo agli altri, ma lungo il muro, e quello si chiama il muro dei casi strani, ci sono i suicidi oppure ci sono i ribelli come la nonna che hanno deciso di farsi cremare. Sotto la lapide in realtà c’è l’urna con le ceneri, che lei avrebbe voluto fossero sparse nella Mosella, il fiume dove ha passato la prima parte dell’infanzia. Il suo desiderio non è stato rispettato, quindi da questo nodo che non è stato sciolto parte la mia voglia di ricostruire il corpo della nonna per poi spargere le ceneri che alla fine dell’operazione della scrittura si spargeranno sul lettore. Quindi frammenti di questa memoria andranno a toccare l’anima  di qualcuno.     

Una storia di famiglia, dunque una memoria privata,  ma anche una memoria storica collettiva. E la finestra si apre su vicende e movimenti che spesso conosciamo superficialmente o non conosciamo affatto: chassidismo, Haskalà, bundismo e naturalmente sionismo, termine che invece, al contrario degli altri, è oggi sulla bocca di molti e che è spesso associato a un nazionalismo ebraico di tipo imperialista e coloniale. Lei ci riporta alle origini di questo movimento, ci aiuta a rimettere ordine?
Per me il sionismo italiano è stato una scoperta, avvenuta tramite i materiali trovati al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, utilissimi a ricostruire il contesto. Ha aiutato molto anche me a capire come mai il mio nonno fuggiva dalla Russia dopo Kishinev, il pogrom del 1903 che è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso perché particolarmente efferato, violento e distruttivo. Il nonno è fuggito in Francia, ha fatto il sarto, poi ha avuto la fortuna e anche il talento in Italia di fare una grande ascesa in banca, fino alle leggi razziali. Dai pogrom russi scappava una folla di disperati, migliaia e migliaia di perseguitati, che rischiavano una fine violentissima. Questi disperati dei paesi dell’Est dovevano trovare una collocazione. Quindi il sionismo italiano ed europeo collabora soprattutto economicamente, in particolare quello italiano è un sionismo che cerca di comprare pezzi di terra in Palestina. Un mito da sfatare è che gli ebrei siano andati in Palestina solo dopo la Seconda guerra mondiale o per i pogrom. Dopo il crollo del Secondo Tempio (70 d.C.) quando inizia la diaspora, molti andarono in diaspora, ma altri invece restarono. C’erano ebrei dall’epoca dei Romani, nel Medioevo, nel Rinascimento, perché erano tornati nel corso del tempo, dando vita a comunità importanti come quella dei cabalisti. C’era il senso di un ricongiungimento. E nel Novecento c’erano percentuali alte di ebrei, tipo il dieci percento, in un Paese che era grande come la Toscana. Pensiamo che noi ebrei in Italia oggi siamo meno dello 0, 1%. C’erano circa 50.000 ebrei a Gerusalemme soltanto. Il sionismo nasce come emergenza umanitaria, non certo come desiderio di conquista, né come fanatismo religioso, ma come necessità di dare un luogo sicuro a chi rischiava la vita. Venne prospettata anche l’Uganda a un certo punto per gli ebrei, però non aveva molto senso perché non era un luogo a cui ricongiungersi, non apparteneva alla storia del popolo ebraico. Anche oggi i profughi fuggono, non hanno soldi per poter andare in America o pagarsi un biglietto aereo, quindi fanno questi viaggi accidentati nei barconi, e lo stesso succedeva allora. Era gente che non poteva permettersi di andare in America perché costava tantissimo, quindi si cercava di aiutarli con le donazioni a partire. Non tutto il sionismo italiano era legato al fare la carità, anche se era un valore ebraico aiutare economicamente i fratelli che non avevano più stipendio. Se pensiamo a Enzo Sereni  -si cita nel libro il Convegno di Livorno del 1924, dove tutte le anime dell’ebraismo italiano si confrontano sul sionismo-, lui dice ‘a me non basta comprare la terra, io voglio andare a costruire qualcosa su questa terra ’, quindi c’era una parte del sionismo italiano che voleva partire, e Giulio Dresner, essendo venuto dai paesi dell’est era più affine a questa seconda corrente.

La storia italiana è la parte preponderante del romanzo. Ed è una storia poco nota o addirittura cancellata da chi, come i Dresner divenuti Dreneri, sparirono in un nuovo esilio in Cile senza lasciare traccia. Una storia di nuovi esili mai raccontata su cui lei solleva un velo. Potrebbe essere l’ inizio di una nuova ricerca, di un nuovo filone…
Certo. Questo rientra anche nel problema più generale su come l’Italia ha gestito questa memoria. Ci sono ancora tanti documenti d’archivio non studiati. Io stessa ho fatto fatica alla prefettura, all’archivio di stato a farmi mandare queste cose. Comunque a parte questo lì poi si aggiungeva il fatto di essere anche stranieri perché Giulio ottiene la cittadinanza italiana con grossa fatica, ottiene la famosa riduzione, cioè il suo cognome viene italianizzato, addirittura si deve iscrivere al partito fascista per ottenere questa integrazione nella società italiana però, nel momento in cui esce il manifesto della razza, perde la cittadinanza italiana e diventa apolide. A questo punto va nel panico e sente il bisogno di fuggire già nel ’38 , mentre molti ebrei italiani che credevano in Mussolini - sia ebrei fascisti che ebrei non fascisti che comunque pensavano fosse una cosa passeggera e non si accorsero del pericolo- restarono. Lui invece si accorge del pericolo perché ha conosciuto i pogrom, sa cos’è l’antisemitismo, quindi annusa l’aria e scappa, potendolo fare, mentre altri non poterono farlo perché scappare costava. Pensiamo alla vicenda emblematica di Liliana Segre. Iniziava la fuga che culminò nel ’43, che fu l’anno decisivo dove da discriminazione si è passati a persecuzione e invio nei lager, con l’entrata dei nazisti in Italia.

Parlando di sé, lei dice “io sono una seconda generazione della Shoah e non ho provato sulla mia pelle la persecuzione e il terrore. Tuttavia li ho assorbiti con il latte materno, indirettamente. Sono stati la creta che mi ha forgiato, l’aria che ho respirato.” Dunque si tratta di ricostruire la memoria di qualcosa che non si è vissuto ma si ha comunque dentro?
Sì, assolutamente. Io penso che intanto noi ebrei della mia generazione siamo tutti figli della Shoah, anche se i nostri genitori non sono stati deportati, perché comunque tutta quella generazione a cui è appartenuta mia madre avrebbe potuto essere deportata. C’è una psicanalista che cito, Dina Wardi, che non fa distinzioni: tutti gli ebrei di quella generazione sono dei sopravvissuti alla Shoah perché hanno sentito la terribile paura di perdere tutto. Chiaramente chi è stato nei lager ha un’altra percezione, però comunque quella paura è entrata nei geni. Infatti lei distingue due tipi di sopravvissuto, il combattente, che non vuole far vedere la sua paura, come era mia madre, che però ha un grosso conflitto con i sentimenti di fragilità e di paura, quasi li rimuove perché sono troppo dolorosi, e la vittima, cioè quello che si identifica nella vittima, e allora bisogna essere buoni, tacere, dimenticare, e in genere questo tipo di sopravvissuto ha un grosso conflitto con la sua rabbia perché rimane inespressa. Ora però se questi valori vengono trasmessi ai figli, di generazione in generazione, i figli si troveranno ad avere dentro dei sentimenti, dei nodi non sciolti che appartengono ai genitori, quindi il lavoro delle seconde e terze generazioni è quello di differenziarsi, di ricostruire i contesti, capire le motivazioni delle persone e poi fare un lavoro di differenziazione. Io il conflitto con la fragilità che è proprio di mia madre non lo voglio. Per me la fragilità, la delicatezza, la sensibilità, come dico in Forse mio padre,  sono valori importanti, non possono essere negati, come anche la rabbia. Io sono cresciuta a pane e Shoah, essendo una  bambina che assorbiva la sofferenza, dal momento che ero una bambina particolare in quanto figlia illegittima. Così venivo portata dalla nonna quasi mi scaricassero in un territorio neutro che non era quello della nonna paterna. Ero un problema della madre, e dunque anche della nonna materna. E in quella casa della nonna materna io sentivo, annusavo queste tragedie, questi sentimenti complicati per un bambino, sentivo questo dolore perché anch’io in qualche modo ero una figlia inutile, sbagliata, e tutti questi sentimenti mi erano familiari. Nel mio libro di figlie abbandonate ce ne sono diverse, c’è mia nonna abbandonata due volte, proprio perché gli elementi scomodi, malati, sentimentali, deboli, vulnerabili, erano zavorra per questo percorso di esuli, perché gli esuli devono pensare prima di tutto a mettersi in salvo. I sentimenti erano considerati inutili, dannosi, come se fossero qualcosa che appesantiva il cammino mentre, come dico, citando Antonio Damasio, i sentimenti non sono un lusso ma un aiuto fondamentale nella lotta per la sopravvivenza. Siamo abituati nel mondo occidentale a percepire il sentimento, il sentire, come una debolezza, mentre il sentire è quello che ci apre alla vita in tutta la sua forza.       

Dopo La figlia inutile è pensabile per il futuro ancora un tassello familiare o il mosaico si è ricomposto?
Questo mosaico si è ricomposto. Poi io ho una famiglia che è un pozzo infinito di ispirazioni, e si scrive sempre di quello che si conosce. Ho scritto altri due romanzi, che non sono sulla famiglia, ovvero uno è sulla famiglia ma non sulla mia, una storia di sorelle, una fra le cose che ho nel cassetto in questo momento. E’ vero che ho ricomposto la figura di mio padre, ho ricostruito un padre letterario in Forse mio padre perché non l’ho mai conosciuto oppure l’ho conosciuto ma non come mio padre, però io credo che come tutti gli abusati, tutte le persone che hanno subito dei traumi, non guarisci mai, cioè ti puoi dare delle giustificazioni razionali e chiudere dei cerchi. Quando hai elaborato, capito, sciolto i nodi, i conflitti eccetera, che fai? Sei solo con la tua urna di ceneri del passato davanti al fiume, la rovesci e inizi a vivere. Lì c’è la paura della vita perché sei solo, non ci sono più le ombre, non ci sono più gli antenati, i babbi, le mamme, i nonni, sei solo al mondo. Sei un orfano e lì devi cominciare la tua vita.