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Informazioni
Le tre porte sarà in scena allo Studio Foce a Lugano il 28 aprile (17.30). www.instagram.com/associazionelumina
Quelle scritte che ti si appiccicano addosso
«Le tre porte»: un lavoro teatrale e didattico per parlare di razzismo con i ragazzi
Sara Rossi Guidicelli
Due ragazze e un ragazzo sono chiusi in un bagno della loro scuola, hanno 13, 12 e 11 anni. Hanno paura, ma cominciano a parlare, forse per sentirsi meno soli, meno spaventati, forse perché hanno bisogno di sfogarsi, forse perché è il compito più importante a quell’età: confrontarsi con i pari.
Questa è la trama, a grandissime linee, di un nuovo spettacolo teatrale sulla scena ticinese: un progetto che rientra nell’ambito della lotta al razzismo, promosso dall’Associazione Culturale Lumina e dal Centro per la Prevenzione delle Discriminazioni del Canton Ticino.
Vado a vedere le prove, lo spettacolo è quasi pronto. Qui non si parla di razzismo violento, quello delle parolacce e delle discriminazioni pesanti; si tratta piuttosto di quelle mezze frasi che diciamo tutti, di quegli atteggiamenti di cui quasi non ci accorgiamo, ma che subiamo e facciamo subire quotidianamente. Quella strana abitudine umana di fare clan, di escludere chi non ne fa parte, di etichettare subito le persone, di commentare un compagno in particolare facendo ridere tutti gli altri.
I tre ragazzi chiusi nel bagno perché sono stati puniti ingiustamente e devono pulire le scritte sulle porte dei gabinetti, sono Eden, Mitja e Lea. La prima ha i genitori eritrei, il secondo è russo, la terza è tremendamente sola, a rischio autolesionismo, così magra che sembra anoressica. «Cosa facciamo adesso?», chiede Mitja. «Quello che facciamo sempre: ci adattiamo», risponde Eden. Lea ha con sé una torcia e la luce è un sollievo. Iniziano a conoscersi e a parlare.
Il testo, scritto dalla drammaturga e giornalista Valentina Grignoli, che è anche collaboratrice di «Azione», è nato a poco a poco, è cresciuto con gli incontri per poi consolidarsi in fase di scrittura. «È stato anche un lavoro di indagine nel mondo degli adolescenti. Un periodo delicato, dove si tende a starsene chiusi nel proprio guscio, ed è difficile a volte trovare la forza di ascoltare, parlare e vedere l’altro». Valentina ha collaborato con uno psicologo dell’infanzia, una pedagogista, e ha scelto con cura il linguaggio da usare parlando proprio con i ragazzi stessi. Il testo è dunque frutto di una ricerca anche interiore: i tre attori, Taty Rossi, Igor Mamlenkov e Aglaja Amadò hanno prima di tutto dato ai loro personaggi qualcosa di proprio. Ma sono anche andati a intervistare altre persone, ragazzini adottati, con la pelle cosiddetta «scura», bambine di prima e seconda generazione la cui famiglia ha un percorso migratorio, russi e russe che in questo momento faticano a far capire che non hanno scelto loro quale passaporto avere, quale governo, quale guerra scatenare.
Sulle porte del bagno ci sono scritte ingiuriose, soprattutto contro i «diversi». Ma diversi da chi? «Quanto sono facili da cancellare queste scritte, ma il problema è che ti si appiccicano addosso», dice Lea. I ragazzi, si sa, possono essere crudeli. Devono sentirsi forti, a volte a discapito degli altri; vogliono sentirsi partecipi, a volte escludendo altri; ma per esistere bisogna per forza schiacciare qualcuno? «Le parole possono essere più violente delle mani», dicono. «Perché possono arrivare fino al cuore e ferirlo».
L’idea dello spettacolo l’ha avuta Aglaja Amadò, attrice e promotrice culturale: «Mi sembrava che nelle programmazioni di teatro per ragazzi mancasse la discussione sul tema del razzismo. Ho coinvolto tutte queste persone, oltre al Centro per la Prevenzione delle Discriminazioni, per lavorare già sui bambini, sugli adolescenti, perché forse dopo è un po’ tardi. E mi sembra importante dire che la nostra compagnia è già un esempio di inclusività, portando in scena due rappresentanti di gruppi discriminati: parliamo di noi e rappresentiamo molti altri, non parliamo di problemi per sentito dire».
Lo spettacolo, intitolato Le tre porte, e curato nella regia da Viviana Gysin, andrà nei teatri e nelle scuole per un pubblico dagli 11 anni. Sarà seguito da una discussione, a seconda delle esigenze e delle richieste degli istituti scolastici o culturali.
«Sono loro le tre porte», mi spiega la regista. «Tre persone che si aprono raccontando sé stesse e ascoltando gli altri: abbiamo lavorato tanto sulle parole, sui vissuti, sulle richieste d’aiuto inespresse. E poi ogni spettatore e spettatrice si farà il suo viaggio. Noi non vogliamo dire “come si fa”, ricette non ce ne sono, vogliamo capire che cosa succede dentro di noi. E lo facciamo raccontando di tre persone che iniziano a guardarsi in giro diversamente e si accorgono di qualcosa di importante che riguarda il modo di definire gli individui».
Taty Rossi racconta della difficoltà che, negli anni, ha riscontrato in Italia, dove è nata. Da ragazzina le chiedevano spesso da dove venisse «veramente», perché parlasse così bene italiano, se avesse almeno un genitore bianco. Ancora oggi, invece, le chiedono – e a volte non le chiedono nemmeno – di toccare i suoi capelli afro. «È un razzismo molto sottile, interiorizzato, ma che fa comunque male: alcune persone non riescono ad andare oltre il colore della pelle. Adesso ci ho fatto il callo, ma è stancante».
Igor invece racconta che, in questo momento storico, essere russi sia visto come una colpa. «Vorrei far capire che io e tanti altri siamo arrivati qui senza armi, senza aver votato Putin e che non è colpa nostra quanto sta succedendo». In realtà, aggiunge che non è solo colpa della guerra, ma ci sono stereotipi che risalgono a tempi più lontani: «C’è un immaginario, forse basato su film di Hollywood che continua a nutrire solo un tipo di russo: marginale, mafioso, alcolizzato, violento, maschilista, e così via. Ecco, vorrei uscire da questa generalizzazione che non ha senso».
Etichettare è molto semplice. È tutto chiaro e schematico. «È rompere gli schemi che richiede coraggio», commenta Viviana Gysin. «Togliere il giudizio sugli altri – e su se stessi – è un grande lavoro, ma è interessante, perché dà l’opportunità di aprire porte e di lanciarsi verso la vita». Nessuno è immune al razzismo, tutti possono sbagliare, ma tutti possono anche imparare a incontrarsi a metà strada, laddove si sa cosa dà fastidio, cosa ferisce, cosa fa sentire escluso.
Conclude Taty: «Mi auguro soprattutto una cosa: che la diversità venga prima di tutto accettata da chi la vive. Chi ha una doppia identità, parla due lingue e mangia da due tradizioni culinarie diverse, ha una ricchezza tra le mani. Da giovani è difficile rendersene conto, soprattutto perché gli altri te lo fanno notare costantemente. Poi si cresce, si matura e si realizza che la diversità aggiunge, non toglie, ed è in quel momento che si impara ad accogliere e valorizzare la propria unicità». Ecco, una porta che si apre. Poi due, poi tre. Sono le tre scimmie, mi dice Valentina Grignoli, quelle che si coprono gli occhi, la bocca e le orecchie: finalmente guardano, ascoltano e parlano, perché è solo così che si cerca un mondo migliore.