azione.ch
 



L’arte del camminare

Dalla letteratura al cinema, il fascino del viaggio a piedi
/ 22/04/2024
Nicola Falcinella

Se il viaggio è il percorso iniziatico per eccellenza, il cammino ne è la quintessenza. Negli ultimi anni l’andare a piedi è stato riscoperto da molti, che sia per moda, per una nuova consapevolezza, per ricerca spirituale, per sensibilità ambientale, per svago o vacanza alternativa. Non sorprende che, accanto a tanti libri pubblicati, aumentino i film, documentari o di finzione, incentrati su questo modo di viaggiare. È il caso del francese A passo d’uomo di Denis Imbert con Jean Dujardin, tratto da Sentieri neri, il libro autobiografico dello scrittore transalpino Sylvain Tesson, oppure del britannico L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Hettie MacDonald con Jim Broadbent, adattamento del romanzo di Rachel Joyce. Spesso nei film il cammino è associato alla malattia, in tutti i casi si trasforma in un viaggio iniziatico (anche ne Il Signore degli Anelli i membri della Compagnia sono viandanti), un percorso interiore e quindi spirituale. Una rivelazione, di sé stessi oppure di un mistero.

Già nel Medioevo partivano a piedi monaci, soldati e mercanti, le cui vicende hanno originato il genere picaresco, del quale un esempio al cinema è L’armata Brancaleone di Mario Monicelli con Vittorio Gassman più guascone che mai. Una teorizzazione su carta fu Camminare di Henry David Thoreau, un filosofo in anticipo sui tempi. In anni recenti, il cammino è al centro del post apocalittico La strada di Cormac McCormack (anche film di John Hillcoat) o Una passeggiata nei boschi di Bill Bryson lungo l’americano Appalachian Trail. Più vicini a noi Nessuno lo saprà. Viaggio a piedi dall’Argentario al Conero e Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro di Enrico Brizzi (suo il cult Jack Frusciante è uscito dal gruppo) insieme Viandanza e Non mancherò la strada del triestino Luigi Nacci, entrambi camminatori e scrittori.

Dalla carta allo schermo il passaggio non è scontato. La lentezza del procedere rischia di ripercuotersi sul ritmo della storia e questo resta uno spauracchio per molti spettatori (e conseguentemente per produttori e registi). Non se ne preoccupa Werner Herzog, uno che ha più volte affermato che attraversare l’Europa a piedi è stata la sua scuola di cinema. Nel novembre del 1974, l’allora emergente cineasta si incamminò da Monaco di Baviera per raggiungere a Parigi l’amica e critica Lotte Eisner (pioniera della critica fin dagli anni Venti, contribuì a salvare il patrimonio della Cinémathèque francese durante la guerra fino a diventare scopritrice e sostenitrice del Nuovo Cinema Tedesco) gravemente malata. Herzog, che lo racconta nel libro Sentieri nel ghiaccio, si convinse che il suo cammino avrebbe tenuto in vita Eisner e fu così: dopo tre settimane, al suo arrivo, la trovò in via di ristabilimento. Tra i suoi tanti lavori c’è Nomad – In cammino con Bruce Chatwin, altro scrittore paladino di questo modo di muoversi. Un tentativo abbastanza riuscito è The Tracks (2013) di John Curran con Mia Wasikowska nel ruolo di una fotografa che percorre l’Australia da parte a parte.

L’episodio di Herzog torna alla mente guardando L’imprevedibile viaggio di Harold Fry, vicenda di persone comuni con l’idea di un miracolo in qualche modo legato alla fatica fisica. L’uomo del titolo è un pensionato del Devon che conduce una vita regolare e grigia, soffocando un dolore antico e convivendo quasi da estraneo con la moglie. Un giorno riceve un messaggio di addio dall’ex collega Queenie, malata terminale in un hospice nel nord dell’Inghilterra. Harold esce per imbucare una risposta, ma si convince presto di volergliela consegnare di persona, senza farsi spaventare dagli 800 chilometri che lo aspettano o dall’indossare dei vecchi mocassini poco adatti alla camminata. Un’avventura sentimentale delicata e con qualche colpo di scena, che si affida molto all’interpretazione di Jim Broadbent (Harry Potter, Il ritratto del duca) che passa dal senso di colpa alla determinazione, dalla sofferenza alla pacificazione e quasi a un’illuminazione. Un personaggio che ricorda gli umili descritti da Uberto Pasolini in Still Life e Nowhere Special, decisi a perseguire una missione, senza però gli accenti drammatici e i contrasti dell’italo-britannico.

Cammina per camminare, ma pure per ritrovarsi, guarire, scoprire e, semplicemente, esistere, Pierre in A passo d’uomo di Denis Imbert, che cita Thoreau esplicitamente. Uno stile di vita, frutto di scelte consapevoli, che lo spinge a percorrere una Francia sconosciuta, fascinosa e abbandonata, dal Mediterraneo al confine con l’Italia fino a Mont Saint-Michel e l’oceano, per 1300 chilometri superando montagne e valli. In lento recupero da un infortunio, l’uomo viaggia ancora con le carte geografiche, non a caso il titolo originale recita Sur les chemins noirs. Tra i temi, il rapporto con la natura e la questione ambientale. Proprio come Harold, anche Pierre si confronta con la spiritualità.

Una panoramica sui cammini non può scludere quelli di Santiago o la via Francigena, tra i più noti viatici di fede tornati alla ribalta negli ultimi anni. Da un’esperienza personale della regista nasce il documentario Sei vie per Santiago (2015) di Lydia Smith, che ha seguito percorsi di persone, dalle età e dalle motivazioni differenti, che si incrociano sui sentieri spagnoli. È un percorso in più opere quello del comasco di Galizia Simone Saibene con 9 onde (2014) e Pellegrinaggi (2016). Tra le rare opere di finzione figura Il cammino per Santiago – The Way (2010) di Emilio Estevez, che dirige il padre Martin Sheen nel ruolo di un medico americano alla ricerca del figlio, morto proprio sulla strada di Santiago. Un taglio più sociale ha Sul sentiero blu (2020) di Gabriele Vacis, che segue un gruppo di giovani con autismo accompagnati dal loro psichiatra verso Roma per imparare a essere autonomi.

Accanto ai percorsi più esplicitamente di fede, non mancano pellicole che raccontano il pellegrinaggio da una prospettiva laica, dal celebre La Via lattea (1969) di Luis Buñuel a O ornitologo di Joao Pedro Rodrigues (Pardo per la migliore regia al Festival di Locarno 2016) che in qualche modo lo aggiorna ai giorni nostri, con un tono surreale e dissacrante, ma non per questo superficiale.