azione.ch
 



Julian Rachlin, musicista versatile

Intervista al violinista e violoncellista lituano che giovedì 25 aprile dirigerà l’OSI al LAC
/ 22/04/2024
Enrico Parola

Per arrivare sul podio, da dove giovedì prossimo alle 20:30 dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana nelle sinfonie Classica di Prokof’ev e K 550 di Mozart (e nel mezzo il Concerto per violino di Mendelssohn, solista Veronika Eberle), Julian Rachlin ha percorso una via sempre meno desueta tra i grandi concertisti d’oggi: diventare stelle internazionali come pianisti, violinisti, violoncellisti e – chi gradualmente chi rapidamente, chi con esiti inferiori, chi altrettanto se non ancor maggiori di quelli raggiunti suonando – imboccare poi la carriera del podio.

Rachlin, nato quarantanove anni fa in Lituania, ma cresciuto artisticamente a Vienna, si è però reso protagonista di una «variazione sul tema»: non si è imposto solo come eccezionale talento del violino, ma presto ha riscosso uguali consensi con lo strumento più grande, la viola. «Merito del mio insegnante a Vienna, Pinchas Zucherman, che sosteneva l’importanza per un violinista di suonare anche la viola: per ampliare le proprie prospettive e affrontare anche gli aspetti più squisitamente tecnici trovando soluzioni diverse, soprattutto nell’utilizzo dell’archetto. Aveva perfettamente ragione, anch’io lo consiglio ai miei allievi. Però, forse, c’è una spiegazione che risale agli inizi non solo della mia carriera, ma anche della mia vita. Sono nato in una famiglia musicale e non ho memoria di me e della realtà a me circostante senza musica. Questo per me, penso già a due anni, voleva dire il suono e le forme del violoncello, assolutamente il mio strumento preferito. Mio padre era violoncellista nell’orchestra lituana e così a due anni e mezzo, appena portò a casa uno strumento per me, mi sedetti, lo misi tra le gambe e iniziai a far finta di suonarlo – un grande giocattolo! – e presto a studiarlo. “Guarda che bel violoncello” mi disse papà. Poi però, quando per la prima volta andai ad assistere a una prova dell’orchestra in cui suonava, rimasi basito: quello che avevo imbracciato come violoncello non era un violoncello, bensì un violino! Nonostante questa scoperta, continuai a usare quello strumento, e quando andai a Vienna per studiare, lo feci come violinista. Quando Zuckerman mi suggerì di provare anche la viola, penso di aver accettato anche perché, per suono e dimensioni, è più vicina al violoncello di quanto non lo sia un violino».

Per anni Rachlin non solo ha diviso la sua carriera tra viola e violino, ma spesso ha tenuto recital alternando i due strumenti: cimento arduo, perché impongono un modo di suonare assai diverso tra loro, molto più diverso di quanto potrebbero credere i semplici appassionati. Però, viaggiando freneticamente per il mondo, tra i suoi bagagli non ci sono due, bensì quattro strumenti: «Porto sempre con me anche due racchette da tennis. Sono sempre in giro e ritengo essenziale trovare un equilibrio, perché la musica occupa quasi tutto il mio tempo ed è importante, almeno per brevi momenti, “spegnere l’interruttore” e dedicarsi ad altro. La vita del concertista è dura anche dal punto di vista fisico; quindi, la scelta degli alberghi in cui soggiorno nelle varie città dove suono è dettata innanzitutto dalle dimensioni della piscina. Cinque minuti dopo aver aperto gli occhi, al mattino, sono già in vasca a nuotare; mezz’ora, poi bagno turco e doccia ghiacciata. E ormai da anni è sopraggiunta la passione per il tennis, che in certi momenti dell’anno diventa quasi un’ossessione; negli aeroporti mi presento spesso con la custodia del violino e della viola nella mano sinistra e con la sacca delle racchette nella destra. Due altre attività che mi aiutano a staccare sono la meditazione e soprattutto la cucina: adoro andare al supermercato, scegliere gli ingredienti e poi stare ai fornelli».

Da talentuoso solista, Rachlin condivide il palco con i maggiori direttori, si confronta con loro sulle scelte interpretative ed esecutive, e sorgono in lui dapprima la curiosità, quindi un desiderio sempre più bruciante di essere lui a impugnare la bacchetta e guidare l’orchestra. «Chiesi a Mariss Jansons (uno dei massimi direttori degli ultimi decenni, ndr.) di insegnarmi, ma rifiutò; rimasi sorpreso perché non solo c’era un bel sodalizio artistico tra noi, ma eravamo grandi amici; mi spiegò che stare davanti a un’orchestra e far suonare in un certo modo tanti musicisti diversi tra loro è molto meno facile di quel che sembra. Avrei avuto bisogno di lezioni regolari e frequenti, e lui non poteva assicurarmele. «Se c’è una persona che può dedicarsi a te al mille per cento, è tua madre Sophia» mi disse. Lei aveva studiato direzione di coro a San Pietroburgo in un’epoca d’oro per la città e il suo conservatorio: i suoi compagni di studi erano stati Jansons stesso, Gergiev, Bychkov… Ovviamente rifiutai. Poi, quasi con sospetto, iniziai a confrontarmi con lei pensando che fosse solo una parentesi introduttiva, rimasi stupito dalle sue conoscenze e dal modo che aveva di farmi capire le dinamiche di una direzione. Non ho mai cambiato insegnante!».