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Beyoncé, una sperimentazione superficiale

Sta facendo discutere la virata country della popstar americana alla conquista del mercato con il suo «Cowboy Carter»
/ 22/04/2024
Benedicta Froelich

Si sa, quando un artista assurge allo status di superstar planetario, con tanto di guadagni vertiginosi e seguito oceanico di fan, non c’è niente di più facile che «adagiarsi sui propri allori», sottovalutando l’importanza cruciale della reinvenzione stilistica – ovvero, di quella spinta costante alla sfida e al miglioramento di sé che, al fine di una vera evoluzione personale, ogni cantante dovrebbe considerare come propria assoluta priorità. Tuttavia, gli ultimi anni hanno visto i circoli più esclusivi dell’olimpo pop tentare di offrire delle eccezioni a tale regola – come avvenuto con il nuovo album della statunitense Beyoncé, da anni ormai vera e propria reginetta delle classifiche internazionali: un lavoro che, in apparenza, la vede sconfinare dai territori del più accattivante mainstream radiofonico in quelli del country a stelle e strisce.

Fin dal titolo (e dalla copertina vagamente kitsch), questo Cowboy Carter si presenta infatti come un disco intriso di atmosfere da rodeo, reminiscenti di una provincia americana in verità piuttosto patinata – il tutto sotto forma di un concept album che sembra voler reinventare il ruolo stesso di Beyoncé come interprete. Certo, bisogna ammettere che il tipo di pseudo-country qui proposto ha ben poco a che fare con ciò che si può ascoltare sul palco del Grand Ole Opry. È molto più vicino alle atmosfere da club vacanze di una lezione di line dance: del resto, questa era probabilmente l’intenzione della stessa Beyoncé – la quale ha voluto utilizzare il CD come una sorta di fucina sperimentale in cui risuonano, tra gli altri, echi hip-hop, R’n’B, funky e soul. Ecco quindi che, in linea con il progetto intrapreso dall’artista – la trilogia di tema americano inaugurata dal disco Renaissance (2022), di cui Cowboy Carter costituisce il secondo capitolo – quest’astuto mélange vede ammiccamenti western intrecciarsi con il sound più pop, percorrendone l’intera gamma per mantenere un altissimo coefficiente di orecchiabilità, come dimostrato da pezzi trascinanti quali Ya Ya e Riverdance. Il tutto viene qui metabolizzato e rielaborato con un occhio di riguardo alle radici afroamericane della tradizione popolare statunitense e all’evoluzione compiuta nel corso dei decenni dalle varie forme di black music, passata dal blues al rap e all’hip-hop, fino al funk e al trap; e sebbene il country non sembri rappresentare uno dei territori abituali degli artisti di colore, è chiaro come la volontà di Beyoncé fosse proprio quella di spezzare le barriere dei cliché abituali per rivisitare il genere secondo la propria personale sensibilità.

Così, se gli irresistibili singoli apripista Texas Hold ’Em e 16 Carriages strizzano l’occhio a tutti i cliché del country commerciale per dare vita a pezzi ballabili e di grande effetto, il leitmotiv del disco è costituito dalle contaminazioni con sonorità apparentemente agli antipodi, che vanno dalla più pura house music condita di «ghetto jargon» (Sweet Honey Buckin’ e Spaghetti), alle sortite gospel di Just for Fun e, soprattutto, American Requiem, strutturato come una «funeral mass» del profondo sud degli States, con tanto di preludio e finale; per non parlare delle suggestioni operistiche offerte dalla drammatica Daughter, reminiscente del Fantasma dell’opera di Andrew Lloyd Webber. Non solo: Beyoncé non trascura le cover illustri, arrivando a duettare con un mostro sacro come Dolly Parton sull’immancabile Jolene – da sempre il brano country per eccellenza – e cimentandosi perfino con il beatlesiano Blackbird, qui oggetto di una versione piuttosto basica, ma efficace.

Vero è che, in alcuni casi, l’artista sembra smarrire la strada nel tentativo esasperato di incorporare nella tracklist ogni tipo di sonorità commerciale – tanto che non mancano nemmeno accenti soft rock anni 70 (Bodyguard e Alligator Tears) e «sexy funky» (Levi’s Jeans e Desert Eagle). D’altro canto, in un disco di quasi 80 minuti anche i siparietti parlati che precedono alcuni dei brani finiscono per apparire un po’ ridondanti, sebbene facciano parte della struttura stessa del disco, concepito come una finestra sulle trasmissioni dell’immaginaria stazione radiofonica KNTRY, i cui speaker sono Linda Martell, Willie Nelson e la già citata Dolly Parton – la quale duetta con Beyoncé anche sulla ritmata Tyrant, distinta da un arguto assolo di fiddle. In effetti, i credits di Cowboy Carter mostrano una lunga lista di artisti ospiti (tra gli altri, Miley Cyrus, Post Malone e Willie Jones, autori di contributi più che convincenti), per non citare i molti nomi illustri presenti come semplici strumentisti (ad esempio Stevie Wonder, Paul McCartney e Nile Rodgers). In realtà, però, l’efficacia dell’album si deve soprattutto all’interpretazione di Beyoncé, qui in forma smagliante e a suo agio con ogni registro grazie a un fraseggio assai versatile; il che permette di perdonare anche qualche scivolata nel cattivo gusto, come i continui doppi sensi a sfondo sessuale inclusi nei testi.

Così, se il successo planetario di quest’album è ormai garantito, resta tuttavia, per l’ascoltatore navigato, una certa amarezza nel constatare come, per quanto lodevole, il desiderio di sperimentazione di Beyoncé si sia tradotto in una carrellata perlopiù superficiale tra mille generi diversi, anziché in uno studio davvero approfondito della country music in chiave afro quale Cowboy Carter avrebbe potuto essere. E sebbene tale limite sia senz’altro dettato dalle inevitabili esigenze commerciali del prodotto, nulla vieta di sperare che l’artista statunitense possa in futuro scegliere di andare ancora più a fondo nelle proprie esplorazioni – così da creare un’opera destinata non solo a raccogliere grande plauso, ma anche ad assumere un vero status iconico, al di là di qualsiasi effimera moda.