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Voglia di danzare

Un film del regista ticinese Demarchi
/ 15/04/2024
Daniele Bernardi

Nessuno nel secondo Novecento ha incarnato lo spirito della danza più di Kazuo Ōno (Hokadate, 1906 – Yokohama, 2010), il grande artista giapponese scomparso all’età di centoquattro anni che non smise di danzare se non poco prima della sua morte. Ma quello che molti non sanno, forse, è che oltre ad aver calcato le scene in modo unico e magico per un tempo lunghissimo, rispetto ai parametri consueti Ōno aveva scoperto tardi la propria vocazione. Infatti egli cominciò a studiare danza verso i trent’anni, dopo essersi a lungo dedicato alla ginnastica.

Anche Masaki Iwana (Tokyo, 1945 – Réveillon, 2020), altro danzatore nipponico appartenente a quella corrente che, con Ōno e compagni, prese il nome di butoh, iniziò a danzare verso quell’età, abbandonando la propria carriera di attore. Fu un cammino duro, per il quale pagò un prezzo alto sia in termini fisici che spirituali ma, come usava dire (cito a memoria, ma sono parole sue), la capacità di sopportare il dolore è proporzionata al desiderio di danzare di ciascuno.

E di desiderio di danzare parla La mia danza (Pic Film, 2023), il nuovo film-documentario di Filippo Demarchi (classe 1988) presentato al Solothurn Film Festival 2023 e disponibile su Play Suisse. Concepita come una sorta di autobiografia intima, la pellicola interroga l’infanzia, la giovinezza e la vita adulta del regista ticinese alla luce di un’aspirazione artistica a lungo vissuta come un nodo conflittuale. Sì, perché Demarchi (nella foto), sin da piccolissimo, avrebbe voluto danzare ma qualcosa glielo ha impedito.

«Quando ero bambino, mio padre ha iscritto me a calcio e mia sorella a balletto», ci dice la sua voce fuoricampo in apertura al film, mentre alcune fotografie lo ritraggono assieme ai compagni di gioco. Come tanti, Demarchi è stato «condannato allo sport» (l’espressione è mia) da quella rigida consuetudine che vuole i bimbi coi tacchetti e le fanciulle in tutù. Infatti per anni, racconta, ha guardato con fascinazione sua sorella come se già sapesse che il proprio sogno era destinato all’illegittimità. D’altra parte si sa, la danza è «roba da femmine».

Il problema naturalmente è culturale. Se la nostra prima educazione fisica – e sentimentale, mi viene da aggiungere – passasse, oltre che attraverso un’arida idea di disciplina agonistica, da un cammino aperto alle possibilità dell’espressione corporea (danza, ballo, teatro, ecc.), non solo chi coltiva il bisogno di danzare si sentirebbe libero di farlo a prescindere dal proprio sesso, ma pure la nostra vita affettiva ne avrebbe giovamento: un abituale rapporto col corpo in relazione alla messa in forma dell’emotività eviterebbe tante problematiche sulle quali solitamente è necessario chinarsi quando ormai i giochi sono fatti.

Nonostante si sentisse in difetto nei confronti del suo desiderio – sentimento di disagio che, scopriamo, pure era legato a una problematica consapevolezza della propria omosessualità – a un certo punto Demarchi si è buttato e, in barba a tutto e a tutti (a cominciare da sé stesso), mentre era a Parigi a studiare cinema si è iscritto a un corso. Ecco che pian piano, allora, quel seme inespresso ha preso a germogliare e, anche se sembrava tardi, la danza ha trovato posto nella vita del regista.

Nel realizzare questo film prendendo le mosse da una domanda paterna («Perché fai balletto?») a cui, sostiene, non sa come rispondere a causa di una sorta di diffidenza nei confronti delle parole, Demarchi compone un collage di foto e filmati del suo passato familiare e affettivo, di disegni e interviste ai genitori, di incontri con giovani ballerini alle prese coi primi, faticosissimi passi necessari a chi vuole intraprendere una delle pratiche artistiche più straordinarie e impervie che esistano.

E dietro a questo insieme di immagini e suoni, ciò che emerge è il difficile cammino necessario a chi vuole indagare il proprio desiderio e tenergli testa.

Cineasta al suo settimo lavoro, Filippo Demarchi frequenta oggi la danza contemporanea per personale necessità. È un amatore, ma in essa  riesce a vivere quel silenzio che gli serve a esprimersi (perché di linguaggio sempre si tratta), a obliarsi e, al contempo, rendere conto di sé al fantasma ingombrante dell’altro, per tutti tanto difficile da fronteggiare.