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Dove e quando
Barbara Probst, Subjective Evidence, Kunstmuseum Luzern fino al 16 giugno 2024. Ma-do dalle 11.00 alle 18.00. www.kunstmuseumluzern.ch
I puzzle spaziali di Barbara Probst
La mostra al Kunstmuseum di Lucerna entra nel cuore degli scatti di un’artista sui generis
Luca Fiore
È nata a Monaco, ma ha fatto di New York la sua città da oltre venticinque anni. Barbara Probst è un’artista sui generis: usa la fotografia un po’ come una scultrice, un po’ come una regista, un po’ come una filosofa. È diventata celebre per le sue opere che sono serie di immagini della stessa scena, scattate simultaneamente da apparecchi diversi, collegati da un sistema radiocomandato. Un suo lavoro può essere composto da un minimo di due a un massimo di tredici immagini, che mostrano il soggetto da altrettanti punti di vista (come nel collage fotografico qui sopra). Difficile descrivere che cosa rappresentino queste immagini. A volte una o più persone in un interno. Altre scene di strada. Altre ancora parti di corpi che interagiscono con oggetti. In alcuni casi il complesso meccanismo di ripresa entra, esso stesso, nell’inquadratura. Il risultato è straniante. Spesso occorrono lunghi istanti prima che ci si accorga che le fotografie che compongono l’opera rappresentano la medesima scena. Quando diventa chiaro il meccanismo, la mente cerca di ricomporre una sorta di puzzle spaziale. Come se la «scultura» della scena acquisisse la tridimensionalità nel momento in cui lo spettatore mette insieme i frammenti dei diversi punti di vista. Subjective Evidence è il titolo dell’importante retrospettiva in mostra al Kunstmuseum di Lucerna, noi ce la siamo fatti raccontare dall’autrice cercando di capire che cosa si cela dietro queste fotografie così enigmatiche.
Perché ha iniziato a realizzare questi gruppi di fotografie?
Era appena prima del 2000. Mi interrogavo su questioni diverse rispetto a oggi. Allora mi interessava il mezzo fotografico e il suo rapporto con la realtà. Che relazione c’è tra ciò che abbiamo davanti e l’immagine meccanica che otteniamo scattando una fotografia? Che tipo di pensiero produce in noi? E poi mi incuriosiva la connessione che esiste tra lo spettatore e l’opera d’arte. Io, in realtà, ho studiato scultura ed è anche per questo che avevo tutte queste domande sulla natura della fotografia. Così ho iniziato a realizzare degli scatti dello stesso soggetto ripreso, simultaneamente, da diversi punti di vista. Non c’è un’inquadratura più giusta delle altre e, viste insieme, queste immagini si possono confrontare e si può capire in che cosa sono diverse. Il primo «esperimento» l’ho fatto nel tetto dell’edificio che ospitava il mio studio di New York. Era il 7 gennaio del 2000 alle 22:47. Ho usato dodici macchine fotografiche.
Che impressione le fece il risultato?
Ne fui abbastanza scioccata, perché erano dodici immagini davvero diverse tra loro. Ho avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di enormemente profondo. Non potevo fermarmi lì: dovevo andare avanti per immergermi in quel tema. All’inizio non sapevo bene come fare. Poi, col tempo, il lavoro si è evoluto.
Come?
All’inizio cercavo di creare qualcosa di molto chiaro, spiegabile e logico. Ciò che facevo era orientato al pensiero, passava per la mia testa e doveva avere un senso preciso. Oggi mi sono liberata da questa sorta di pretesa e ho mantenuto soltanto l’idea di immagini simultanee. Così le mie opere oggi sono meno «spiegabili», si nota meno che gli scatti sono fatti nello stesso momento e nello stesso luogo, come avviene per i nudi. Oppure ci sono delle sequenze in cui alcune fotografie ritraggono il cielo, o qualche altro elemento che non ha connessione visibile con il resto della scena alla quale, pure, appartiene. Eppure si capisce, lo sguardo è legato al momento in cui sono state scattate anche le altre immagini. Oggi sono più interessata a violare le regole che, all’inizio, mi sono imposta.
Che cosa cerca oggi con la fotografia?
All’inizio, il punto era il medium. Oggi, per me, le macchine fotografiche sono diventate come un segnaposto per gli occhi. L’interesse non è su ciò che può fare la fotografia, ma come funziona la nostra percezione. Ognuno di noi vede il mondo in modo diverso, perché lo vede da punti di vista differenti. Abbiamo desideri, esperienze di vita, background storici e culturali diversi. Siamo fisicamente diversi. Nessuno può dire di vedere più verità degli altri.
È una riflessione sulla conoscenza. Sul rapporto tra verità ed esperienza. Qualcosa di molto filosofico.
È un tentativo di avvicinarsi alla verità. Sì, è qualcosa che fanno anche i filosofi. Io provo a farlo con le immagini e non con le parole. Quante fotografie dello stesso soggetto servono per dire la verità? Forse la verità è qualcosa nella mente dello spettatore che cerca di creare un senso d’insieme.
Del suo lavoro, una volta, ha detto che la sfida era quella di «guardare dietro l’impermeabile cortina di immagini» per vedere la vera New York.
Sì, in tutti gli uomini c’è un grande desiderio di vedere la verità. È una questione che io mi pongo spesso. La vita è un’illusione. È ciò che vediamo, ma ognuno vede qualcosa di diverso.
Ma se la verità non c’è, perché desideriamo conoscerla?
E chi dice che non c’è? Io credo nella verità. Ma non so se sia possibile raggiungerla. Probabilmente sì. Di certo, cercarla è una cosa molto utile. È un desiderio che attraversa i secoli. Il punto è se tutto è soggettivo oppure possa esistere un qualche tipo oggettività.
È un tema importante, sia sul piano interpersonale sia su quello sociale.
Oggi è tutto molto «sì/no» o «bianco/nero». Più che in passato. Me ne sono accorta durante la pandemia. E ho provato grande disagio. Lì ho capito che il mio lavoro oggi potrebbe essere ancora più rilevante, dando un contributo a un modo di vedere le cose che tenga conto del fatto che possono coesistere più punti di vista.
Come sceglie che cosa fotografare?
A me interessa più il modo in cui posso guardare qualcosa, piuttosto che ciò che guardo. Quello che fotografo, in sé, non è così importante. Torno spesso a usare gli stessi modelli e fotografo negli stessi luoghi. Una persona che uso per realizzare una scena di paesaggio può essere la stessa che fotografo in quelli che non mi piace chiamare ritratti, ma preferisco usare il termine close up, primi piani.
Perché?
Ciò che voglio rappresentare non sono tanto i protagonisti, quanto piuttosto il loro sguardo verso lo spettatore. Di solito si tratta di una doppia immagine. Due punti di vista in uno. L’opera si incentra sullo scambio di sguardi.
Eppure non si può prescindere da ciò che fotografa.
Per rendere ciò che voglio comunicare devo produrre delle immagini che, in sé, hanno una certa forza. Non ho l’impressione di raccontare una storia, ma a chi guarda potrebbe sembrare così. Ma io faccio di tutto perché l’insieme appaia irrisolto o ambiguo. Si tratta di una specie di tableau vivant senza una trama.
Nei titoli delle sue opere è indicato, con precisione, il luogo, il giorno e l’ora in cui lo scatto è stato realizzato. Perché?
Sono gli unici dati di fatto di quell’opera. Indicano il punto di partenza. Il resto riguarda la soggettività, come dicevamo prima.
A quali artisti del passato ha guardato e continua a guardare per nutrire il suo lavoro?
Soprattutto ai registi di cinema e agli scrittori. Amo molto, ad esempio, i romanzi di Alain Robbe-Grillet e il loro approccio anti-narrativo. Poi penso a Jean-Luc Godard. Ma il cinema mi interessa tutto, dall’horror al neorealismo italiano. Anche quello che si fa oggi. Forse perché il mio lavoro assomiglia a quello di un regista, che usa più cineprese da angolazioni diverse. Trovo molto utile guardare film di qualsiasi tipo e fotografie di qualunque genere.
Nessun artista contemporaneo?
Fred Sandback, lo scultore minimalista americano, famoso per le sue opere di filo colorato. In sé non ha molto a che fare con il mio lavoro, ma di lui mi interessa la provocazione che induce lo spettatore a vedere e percepire lo spazio in modo completamente diverso. In fondo, è quello che faccio anch’io.
È molto esigente con lo spettatore.
Credo che lo spettatore completi l’opera. Lo diceva anche Godard. Il suo montaggio costringe chi guarda a riempire i buchi narrativi. Senza la partecipazione dello spettatore il lavoro non è compiuto.