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Kurt Cobain e l’esplosione dell’underground

Anniversari  ◆  Il 5 aprile 1994 moriva Kurt Cobain, leader dei Nirvana, che scriveva con il cuore e non si curava delle regole
/ 08/04/2024
Guido Mariani

Il 25 febbraio di 30 anni fa, i Nirvana si esibirono a Milano in quello che all’epoca si chiamava PalaTrussardi, un palazzetto dello sport in zona Lampugnano che oggi è un relitto urbano in attesa da anni di essere demolito. La band di Kurt Cobain (nella foto) era all’apice della popolarità, da pochi mesi era uscito il loro terzo album, In Utero, che ne aveva confermato lo stato di grazia creativo e il successo. Erano nel pieno di un tour europeo tutto sold-out.

Cobain si presentò sul palco con una camicia da supermercato e un cappello di lana calcato fin quasi sugli occhi da cui spuntavano i suoi capelli biondi. Era pallido, magrissimo. I Nirvana (con Cobain c’erano Pat Smear e Dave Grohl, oggi nei Foo Fighters, e Krist Novoselic) travolsero gli spettatori con un sound che univa potenza e melodia, distorsioni e assoli, sofferenza e redenzione. L’essenza più pura della scena grunge che all’epoca aveva marcato un punto di svolta nella musica. Nel ricordo del pubblico che era presente e che pagò l’ingresso 32mila lire (16 euro), quel giorno è rimasto memorabile, ma doloroso da rievocare. Alla fine del concerto milanese, Cobain salutò, appoggiò diligentemente la chitarra a una cassa e uscì di scena.

Nei giorni seguenti la sua salute iniziò a deteriorarsi per un mal di gola, i Nirvana tennero un concerto a Lubiana e uno a Monaco, ma qualcosa sembrava essersi rotto, l’energia era diminuita, l’alchimia appariva compromessa. Gli show successivi vennero cancellati. Il tour europeo fu interrotto. I Nirvana non saliranno mai più su un palco. Kurt Cobain aveva compiuto da pochi giorni 27 anni, ma si sentiva a pezzi. Volò a Roma dove prese una stanza all’Hotel Excelsior di via Veneto. Solo pochi giorni prima a Roma, il 23 febbraio, aveva registrato la sua ultima esibizione in tv, ospite di Rai3 Tunnel, condotto da Serena Dandini e Corrado Guzzanti. I Nirvana avevano suonato tre brani e preso parte a uno sketch con Guzzanti che interpretava nello spettacolo la macchietta di un giovane studente romano non esattamente furbo, ma patito del grunge. Il siparietto non andò in onda anche perché Cobain che avrebbe dovuto solo abbozzare alle battute del comico, decise di improvvisare e si mise a tirare con violenza la parrucca di Guzzanti che però era fissata al cuoio capelluto con le mollette. Si disse poi, ma qui la storia sa un po’ di leggenda, che il comico svenne addirittura dal dolore.

Alle quattro del mattino del 4 marzo Courtney Love trovò il marito nella stanza dell’hotel romano disteso a terra, incosciente, cianotico. Venne portato in coma all’ospedale Umberto I. Aveva assunto un cocktail letale di sonniferi e alcol. Un atto volontario. Il fisico di Cobain si ristabilì dalle conseguenze di quel gesto tragico, ma quando la rockstar tornò negli Stati Uniti era un uomo annientato. Le sue fragilità erano esplose tutte d’un tratto, tutte insieme. Il rapporto con Courtney Love era sempre più conflittuale e sfociò in un litigio interrotto solo dalla polizia, l’eroina (vizio che condivideva con la moglie) aveva preso il sopravvento su tutto, i Nirvana erano ormai un’esperienza da archiviare: scelte di vita autodistruttive e incoerenti segno di un’inesorabile spirale verso l’abisso. A fine marzo Cobain e la Love, decisero di intraprendere percorsi diversi di disintossicazione. Kurt si fece ricoverare presso l’Exodus Center di Marina del Rey in California, ma il giorno prima a Seattle aveva chiesto a un amico, il chitarrista Dylan Carlson, di prestargli un fucile per ragioni di sicurezza personale. Rimase in clinica solo due giorni e poi scomparve. Nessuno riuscì a rintracciarlo. Venne ritrovato senza vita da un elettricista la mattina di venerdì 8 aprile 1994 nella sua villa di Lake Washington Boulevard a Seattle. Accanto al cadavere c’erano il fucile Remington calibro 20 che gli aveva dato Carlson e una lettera di addio.

A trent’anni esatti da quel gesto fatale ancora oggi siamo costretti a chiederci se quella tragedia poteva essere evitata e che cosa è rimasto dell’artista Kurt Cobain. Al contrario di quanto molti pensarono all’epoca, Kurt non venne lasciato solo. Dal suo ritorno da Roma, amici e colleghi si erano già messi a sua disposizione per aiutarlo a uscire da quel momento buio. La sua fragilità esistenziale, emersa poi chiarissima dalla lettura dei suoi diari e dei suoi scritti, fu la sua disgrazia, ma era stata anche la fonte principale della sua ispirazione. Quando all’inizio degli anni ’90 il grunge esplose sulla scena, la musica era in un’epoca di grande riflusso. Il decennio precedente si era concluso all’insegna di un pop banale e di una scena rock mainstream diventata più apparenza che sostanza. Le band di Seattle come Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Alice in Chains erano alla ricerca di una vocazione più autentica per l’espressione musicale. Ha scritto Everett True, uno dei pochi giornalisti che Kurt chiamava amico: «I Nirvana capirono la prima regola del rock: la spontaneità è al cuore di tutta la grande musica». Fu un cambiamento epocale, la scena che fino a pochi mesi prima era definita «underground», quasi clandestina, emerse alla luce dei riflettori.

Alla notizia del suicidio di Cobain, David Fricke, firma di «Rolling Stone» disse: «Aveva ancora così tanto da dare. È stata la cosa più simile a John Lennon che questa generazione ha avuto. Scriveva con il cuore e non seguiva le regole. Qualcuno si chiede qual era il messaggio verso il pubblico. Lui “era” il suo pubblico».