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Katherine Mansfield, Qualcosa di infantile ma di molto naturale. Tutti i racconti, Adelphi, Milano, 2023


La forza dei racconti

Nella raccolta di Adelphi c’è tutta la scrittura elusiva e perfetta della Mansfield
/ 08/04/2024
Manuel Rossello

Grosso modo fino al Romanticismo, il racconto è stato la misura «naturale» della prosa narrativa. Che i confini di questa modalità primigenia di affabulazione siano da sempre sfumati lo dicono i non pochi sinonimi: narrazione, fiaba, novella, apologo, parabola, storia, aneddoto...

Quanto alla sua lunghezza, se si volessero fissare i confini il primato della brevità (tanto estrema da consentire di trascrivere integralmente i testi) potrebbe andare a Il dinosauro del guatemalteco Augusto Monterroso («Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.») e al cosiddetto Annuncio economico di Hemingway («Vendesi scarpe per bebè. Mai usate.»). Casi limite, si dirà. Al polo opposto invece...non c’è limite. Tra i maggiori non si possono non citare Boule de suif di Maupassant e I morti di Joyce. L’uso invalso nella scuola media, invece, prescrive razioni di non meno di due pagine e non più di quattro, misura idonea per infliggere agli allievi i relativi apparati didattici sull’arco di due ore.

In area italiana, dopo gli esempi memorabili del Sacchetti, del Bandello e soprattutto del Boccaccio, la forma-racconto non ha avuto grande successo. Verga è annoverato tra le poche luminose eccezioni, mentre il quasi ignoto Amore e ginnastica di De Amicis era prediletto da Calvino, che lo considerava il più bel racconto italiano dell’Ottocento. Per contro la produzione torrentizia di Moravia (La Capria lo chiamava “impiegato della scrittura”) all’epoca poteva contare su un presenzialismo editoriale asfissiante, mentre oggi è fin troppo dimenticata.      

Ad ogni modo, sul perché si scrivano racconti c’è una gustosa testimonianza di Raymond Carver. Nella caserma in cui svolgeva servizio militare aveva notato una stanzetta inutilizzata attigua al comando. All’interno vi erano solo un tavolo, una sedia e una macchia per scrivere. Un giorno, per vincere la noia delle lunghe ore di inattività entrò nella stanza, infilò un foglio nel carrello e si mise a pigiare i tasti. Di certo il timore di veder interrotto quell’illecito passatempo dovette indurlo a preferire la misura breve. Fu l’inizio della sua carriera, raro esempio di scrittore sprovvisto di un lungo apprendistato come lettore.      

Diverso il caso della Mansfield. I viaggi in Europa dalla natia Nuova Zelanda e la necessità di cure per la tisi la portarono a ripetuti soggiorni nelle stazioni termali del continente, istituzioni allora ben fornite di libri e dove non mancavano mai un salone per la lettura e uno per la musica. In una di queste (a Wörishofen, in Baviera) il caso volle che scoprisse i racconti di Čechov, opera-spartiacque per chiunque si accinga all’impresa di scrivere racconti. E di Čechov divenne l’unica erede riconosciuta.    

Il valore di un racconto deve spiccare fin dalle prime righe, perché non c’è tempo di tergiversare come fa – per altro magistralmente – Musil nell’Uomo senza qualità. In ciò la Mansfield è maestra poiché vari suoi racconti iniziano in medias res e con ellissi, sottraendo cioè un necessario dato informativo al lettore, che così viene catturato all’istante: «E poi il tempo era ideale» (Garden-party); «La settimana successiva fu una delle più indaffarate della loro vita» (Le figlie del defunto colonnello); «Il mattino dopo scesero a colazione esattamente come fossero gli stessi di sempre» (Vedova).

Il racconto che dà il titolo alla raccolta è uno dei più notevoli ed è desunto da una poesia di Coleridge. Vi si ammira la capacità della scrittrice di penetrare la psicologia dei protagonisti maschili, dei loro pensieri, facendoli agire con grande verosimiglianza, compresi gesti, posture ed espressioni tipicamente virili. Ma se c’è qualcosa di irriducibilmente femminile in questi racconti è l’“educazione sentimentale” che nobilita l’animo dei personaggi. Pagine abitate da uomini che amano le donne, ma che insieme conoscono l’arte del corteggiamento.

Giorgio Manganelli con la sua penetrante e un po’ esoterica leggerezza ci spiega che Katherine «scrive avendo in mente una sorta di perfezione; una scrittura elusiva e perfetta, così illusionistica da apparire spietata». Anche badando alle date (la prima pubblicazione in volume dei racconti è del 1911), Manganelli vuole dirci che a quell’epoca lo scrutinio dei sentimenti non era ancora scaduto a sentimentalismo, che la descrizione dell’inizio di un amore è un motivo degno degli scrittori più raffinati. Pochi come la Mansfield hanno infatti raccontato con tale intensità e spessore quel crogiolo dove si fondono esistenza e sentimento.

Ma questi racconti si possono anche leggere secondo una diversa prospettiva, inseguendo la miriade di riferimenti botanici sparsi nelle pagine dalla scrittrice neozelandese. Una sensibilità che riflette un clima culturale raffinato, testimoniato in quegli stessi anni dall’opera di Gertrude Jekyll, la creatrice di giardini che impose al mondo il design floreale inglese.