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La storia di Fede e del suo corpo ingombrante
Romanzo ◆ Un corpo di vent’anni e centocinquanta chili, nato con una fame ancestrale finché incontra lo sguardo di Giulia
Roberto Falconi
Ho l’impressione che l’ultimo romanzo di Giorgio Falco confermi uno dei tratti più manifesti anche delle opere precedenti dello scrittore, ossia la tendenza a indagare senza sosta le catene di causa-effetto che determinano le cose; a inserire l’individuo in una cornice fenomenologica che cerchi di illuminarne la condizione.
Ne Il paradosso della sopravvivenza si assiste al passaggio senza soluzione di continuità da elementi minuscoli a fenomeni macroscopici
Lo si vede bene in Ipotesi di una sconfitta, nella scelta dei microeventi che costituiscono l’autobiografia dell’impiegato (e poi scrittore) Giorgio Falco; lo si vede in Flashover, in cui il desiderio dell’odore di nuovo della BMW porta l’elettricista Enrico Carella a mandare in fumo il teatro della Fenice con un cannello per saldare rimasto «inavvertitamente» acceso; ma anche Condominio oltremare, sebbene con strategie diverse, sembra costruito sulla dialettica tra storie e Storia.
Ne Il paradosso della sopravvivenza (nella foto la copertina del libro) si assiste al passaggio senza soluzione di continuità da elementi minuscoli (la pepita di zucchero che cade dalla brioche della madre e che il protagonista Federico Furlan intercetterà gattonando sotto il tavolo, prima avvisaglia della futura obesità) a fenomeni macroscopici (i movimenti millenari di acqua e terra attorno a Pratonovo, dove egli vive). Come dire: le nostre vicende determinano e sono determinate da quelle che ci trascendono.
Federico Furlan, per tutti Fede, ha un unico tratto identitario. È per tutti «il ciccione», non si sa nemmeno quanto, visto che la bilancia del dottor Cles (sarà lui a informare del significato del titolo) si ferma a 150 kg, la lancetta non può andare oltre. A Pratonovo cresce (a dismisura) e frequenta le scuole; nel capoluogo che sta più a valle si laurea in Storia. Fede esiste attraverso il proprio corpo e attraverso il corpo di Giulia, la ricca e bella compagna di scuola con cui si instaurerà un gioco. Lui, bulimico, è costretto a sottostare alle regole imposte da lei, anoressica: Fede, nudo, deve ingurgitare cibo di ogni sorta con una gabbietta in acciaio (della Ruhr, qualità tedesca) che gli imprigiona i genitali e di cui lei custodisce la chiave; in cambio può guardarla mentre si tocca.
Falco inserisce la storia di Fede in una serie di cerchi concentrici sempre più ampi: ne ricostruisce, con una modalità non dissimile da quel che avviene ne La gemella H (con cui questo libro condivide per certi versi anche la topografia), la genealogia famigliare, a partire dal precisissimo istante in cui sua madre e suo padre si scambiano il primo sguardo; la incrocia più o meno lateralmente con le storie dei personaggi implicati nella caduta della funivia di Pratonovo, da quella dell’unico bambino superstite a quella dell’unico responsabile riconosciuto dell’incidente, che – scontata la pena – Fede incontra regolarmente, seduto su una panchina ai bordi del laghetto. Nessuno si siede con lui su quella panchina. Nessuno tranne Fede e qualche ignaro turista.
Falco torna a riflettere sul rapporto opaco tra realtà e costruzione dei suoi simulacri, qui indagato anche attraverso alcune scene di valore metaletterario: Fede quattordicenne che, al Bar Sport, batte il record al videogioco di Popeye (prima che qualcuno raggiunga un punteggio ancora più alto, nulla è destinato a durare); Fede e Giulia che in una rievocazione storica per turisti rappresentano rispettivamente i ruoli dell’inquisitore e della strega, in una sorta di cortocircuito identitario tra vittima e aguzzino. Sono questioni affrontate in particolare nella seconda parte del romanzo, quando Fede fugge in una Milano spersonalizzante in cui si radicalizzano alcune dinamiche già avviate a Pratonovo: se nel villaggio di montagna il rapporto tra Io e Mondo, pur doloroso, era ancora possibile, ora le vicende dei personaggi appaiono tra loro impermeabili: indistinguibili i monolocali in cui Fede via via trasloca; le storie dei colleghi restituite attraverso un copia-incolla che le rende interscambiabili; il primo e ultimo rapporto con una donna (Barbara, soprannominata Barbie Cassonetto: nomen omen) destinato a chiudersi in fretta. All’unicità dell’esperienza si sostituiscono la serialità e la mercificazione del tempo e dello spazio (ormai limitato a seminterrati, ascensori a specchi, distributori automatici, luci al neon) imposte dal Capitale. Fede, tra gli altri lavori, si ritrova a dover taggare video porno, cinquanta all’ora, non uno di meno, tanto si può sempre mangiare davanti al computer: insomma, bisogna imparare in fretta se l’etichetta «pregnant» sia più o meno importante di «black» o di «anal». E bisogna farlo mentre, tre scrivanie più in là, la collega riceve al cellulare la notizia della morte del padre e fugge in bagno: nell’anonima orizzontalità dell’open space è caduto anche l’ultimo labile confine tra pubblico e privato e il lutto può raggiungere anche in luoghi che ne impediscono la condivisione.
E a nulla serve il ritorno a Pratonovo, dove la ricomposizione è ormai impossibile: i genitori sono morti, Giulia avviata a prendere il comando dell’azienda di famiglia. Per Fede le uniche lacrime sono quelle di fronte alle fotografie sulle lapidi del dottor Cles e della moglie, morta un paio di anni più tardi. Lui è ritratto mentre suona la chitarra; lei nel salotto di casa, con alle spalle la fotografia che poi sarà quella della lapide del marito. È forse in questo vortice tra vita e morte che sta l’insensatezza del Mondo.