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Bibliografia

Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno, Castelvecchi Editore, Roma, 2023.


Una prospettiva zoocentrica per la maternità

Intervista alla filosofa femminista  Adriana Cavarero autrice di Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno
/ 01/04/2024
Laura Marzi

«Ogni essere umano è nato da donna, anche se ciò non comporta affatto che ogni donna, ogni figlia, sia obbligata a diventare madre. Riflettere sul dato della nascita da madre è un gesto filosofico»: abbiamo incontrato Adriana Cavarero (nella foto), filosofa femminista, già docente in diversi atenei del mondo, autrice di testi fondamentali del pensiero della differenza e, in ultimo, di Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno.

Nel primo capitolo lei attribuisce alla scrittrice Elena Ferrante l’urgenza di liberare la maternità «dalle finzioni che l’hanno censurata o falsificata». È anche il suo obbiettivo con questo libro?
Sì, ho cercato di sganciare la maternità dalle sue rappresentazioni tradizionali che insistono su un’immagine idilliaca e sentimentale della donna che, divenendo madre e sacrificandosi per i figli, realizzerebbe così la sua autentica essenza femminile. Come, d’altra parte, ho criticato alcune correnti femministe, ispirate da Simone de Beauvoir, che vedono nella maternità una gabbia biologica che imprigionerebbe le donne nella funzione di procreare, e perciò nell’ambito domestico, impedendo loro di realizzarsi come soggetti liberi.

Il concetto di deinon, che lei definisce «un vocabolo pressoché intraducibile» e che associa al «tremendo» di Elena Ferrante, ritorna nel testo come elemento che inevitabilmente connota l’esperienza della maternità. Ce ne parla?
La gravidanza e il parto costituiscono un’esperienza nella quale il corpo di una donna tocca e viene attraversato dal fenomeno del processo generale della vita. La vita non è infatti mai una realtà astratta, separabile dalle molteplici forme viventi, umane e non umane, in cui si incarna. Ora, per un essere umano, fatto di corpo e psiche, carne e coscienza, fare esperienza diretta di questo processo di generazione delle forme viventi è «tremendo» o spaventoso e insieme prodigioso. In questo senso, la mia tesi è che la maternità non sia affatto una gabbia biologica bensì il luogo dove l’umano fa conoscenza e si fa complice della vita a cui apparteniamo. È una conoscenza importante che posiziona il vivente umano in mezzo agli altri viventi invece che collocarlo al vertice come creatura speciale e superiore, loro sovrano e padrone.

Anche in questo testo come per esempio in Tu che mi guardi, tu che mi racconti lei insiste sul fatto che ci sono dei concetti che la letteratura affronta, descrive e comprende, meglio della filosofia.
La filosofia procede per definizioni e ha uno sguardo speculativamente preciso ma ristretto. Coglie i concetti più che la realtà concreta, sempre singolare, delle vite. La narrazione ha invece uno sguardo più largo e, per quanto riguarda le vite vissute, più profondo. Dice quel che la filosofia non vede e perciò non può dire. Per questo ho apprezzato le parole di Elena Ferrante quando afferma che nei suoi libri tenta di «dire la verità della maternità come solo la finzione letteraria può permettersi di dire».

Una parte del femminismo considera i discorsi sulla maternità pericolosi perché concorrerebbero a relegare le donne nel ruolo di madri e quindi all’accudimento. È un rischio che lei a più riprese dichiara di comprendere. Allo stesso tempo lei evidenzia il pericolo che deriva dal non nominare il corpo materno, il fatto che tutte e tutti, finora, veniamo da corpo di donna. Può approfondire?
Ogni essere umano è nato da donna, anche se ciò non comporta affatto che ogni donna, ogni figlia, sia obbligata a diventare madre. Riflettere sul dato della nascita da madre, sulla nostra origine nel e dal corpo materno, è un gesto filosofico che contrasta innanzitutto una tradizione che, come ha notato non solo Hannah Arendt, misura il senso della vita umana sulla morte invece che sulla nascita. La nascita e il corpo materno vanno invece messi al centro e nominati, non solo perché sono dati di fatto evidenti che è assurdo ignorare o marginalizzare, ma perché sono appunto il luogo dove l’umano sperimenta e conosce il suo far parte della varietà infinita delle forme viventi. Certo, il rigenerarsi della specie umana dipende dal fatto che le donne continuino a generare, a scegliere quella maternità di cui il loro corpo è capace in potenza. Ma non c’è alcuna obbligatorietà in questa scelta. In tal senso, come già avevo affermato tanti anni fa in Nonostante Platone parlando della figura di Demetra, il potere della maternità, di generare o non generare, è tremendo, veramente inquietante. Cercare di manipolarlo con statistiche sulla denatalità mi pare, pertanto, un po’ riduttivo rispetto alla «verità» della posta in gioco.

Nel capitolo che ha intitolato Intermezzo autobiografico descrive la difficoltà di doversi confrontare con espressioni quali «persone con utero» o «persone con mestruazioni» che il nuovo linguaggio inclusivo imporrebbe al posto di «donne». Evidenzia, poi, in queste nuove regole il rischio di una regressione invece che di un passo verso la libertà. Ce ne parla?
Le politiche dei movimenti LGBTQIA+ cercano di imporre una specie di neolingua finalizzata soprattutto a negare il binarismo sessuale, ossia il fatto che nella specie umana, come in molte altre specie animali, i sessi sono due: maschio e femmina. Il fine di questi movimenti è affermare che i sessi non sono due bensì tanti quanto ogni persona si auto-percepisce nella sua diversa identità sessuale. Alla tesi che le minoranze siano oppresse dal sistema patriarcale, si è sostituita ora la tesi che a opprimerle sia invece il sistema binario. Per evitare la pretesa gabbia linguistica del binarismo, si propone dunque un linguaggio inclusivo – fatto di asterischi, schwa e altri accorgimenti – che proibisce di nominare le donne definendole invece «persone con utero». Come femminista, appartenente a un movimento storico che ha lottato per le donne e con le donne, mi oppongo a questa neolingua artificiosa e, per le donne, oltraggiosa. Come filosofa osservo che il problema non sta nella pretesa alquanto astratta, e biologicamente insostenibile, di negare il fatto che i sessi sono due, bensì nel criticare quelle interpretazioni patriarcali del binarismo che hanno fatto del sesso maschile il modello dell’umano in quanto tale, degradando il sesso femminile a una sua derivazione inferiorizzante. La Bibbia racconta notoriamente che Eva fu tratta da una costola di Adamo. E nei miti greci e nella tradizione filosofica c’è anche di peggio.

Nel testo emerge che la concezione della maternità e del parto come esperienze in cui la vita, «zoe», che ci circonda e che ci pervade, diventa «bios», un corpo singolo, attraverso una donna, è correlata a una ecologia che lei definisce «radicale». Ce ne parla?
Cerco di proporre quella che io chiamo una zoontologia, una prospettiva che guarda alla condizione umana come condizione di una specie vivente inserita nel mondo variegato delle forme viventi e ad esse collegata, per dirla con Darwin, in un’unica rete. Da quando Aristotele ha definito l’uomo uno zoon logon echon, ovvero un vivente che ha il linguaggio, non si è mai smesso di esaltare la superiorità dell’uomo in quanto capace di linguaggio (di pensiero, di ragione), e di svalutare ciò che nella specie umana è mera animalità, corpo, vita. Anche la donna in quanto generatrice, insieme alla natura tutta in quanto rigenerazione dei viventi, è finita in questa posizione inferiore e degradata. La dominazione dell’uomo sulla donna ha infatti coinciso con il dominio dell’uomo sulla natura. Ora, dubito che questa prospettiva antropocentrica sia in grado di affrontare efficacemente la catastrofe ecologica che è oggi finalmente all’ordine del giorno. Credo invece che una prospettiva zoocentrica, volta a riconoscere l’aspetto essenziale del nostro essere viventi allacciati con altre forme viventi, possa inquadrare meglio il problema. Abbiamo bisogno della scienza – detesto l’atteggiamento antiscientifico di certe filosofie umanisticheggianti. Ma il modo di comprendere i veri termini del problema ecologico deve ribaltare il paradigma antropocentrico di aristotelica memoria e ricollocare gli umani nella rete di quelle specie viventi di cui noi siamo solo una forma, genealogicamente tarda e passeggera, anche se straordinariamente distruttiva. La conoscenza viscerale della zoe che viene dall’esperienza materna può essere d’aiuto. Ovvero può aiutarci a impostare un’ecologia radicale.

«Non è dando la vita ma rischiandola che l’uomo si eleva al di sopra dell’animale. È per questo che nell’umanità la superiorità è accordata non al sesso che genera ma a quello che uccide». Si tratta di una citazione da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir che fa eco a un tema su cui lei ha lavorato molto: la priorità che la tradizione filosofica occidentale assegna alla morte invece che alla vita. Anche la letteratura agisce allo stesso modo, considerando eroi coloro che vivono per morire. Lei che tipo di eroismo desidererebbe?
A parte gli eroi omerici che, come Ulisse, sanno piangere, detesto i mondi che hanno bisogno di eroi. L’esaltazione della morte eroica e della potenza di uccidere mi è ancora più in uggia. La tradizione patriarcale, che ha dominato la storia finora, ci ha regalato guerre: guerre che ancora e sempre impazzano. Mi pare che sia ora di cambiare prospettiva, di mettere in campo un po’ di immaginazione utopica, attenta alla fragilità del vivente e allergica al desiderio di morte che nutrono gli eroi.