azione.ch
 



Nel medioevo sikh di giostre e caroselli

Tradizioni lontane ◆ Giorni di festa ad Anandpur, nel Punjab indiano, per gli immortali cavalieri Nihang, difensori della fede
/ 25/03/2024
Testo e foto di Paolo Brovelli

Sono dentro, sono in mezzo, sono tra la folla, nella folla, e son la folla. Che strappa, molla e tira e mi trascina, colorata e densa, e gaudente e vociante. Ci sono inni e canti. E tifo. E poi colori, colori, colori che volano, in polvere, gettati per aria da tutti, come coriandoli a carnevale, e che si posano ovunque: su visi, mani, vestiti, sui muri, su carri, camion, auto, motorette, risciò e poi sui cavalli e fin sugli elefanti, che sfilano solenni e decorati di baldacchini e gualdrappe azzurre lungo le strade e fin nello stadio, dove confluiscono tutti per la festa finale. Là, stuoli di instancabili duellanti piroettano incrociando incruente spade e lance, arginati nel cerchio sacro degli ammiratori, e i giocolieri volteggiano ruote di canapi e nappe (i chakari). È un medioevo di giostre e caroselli! E infatti, laggiù, guarda! I cavalieri sfoggiano esibizioni equestri, ritti in piedi su cavalli appaiati lanciati al galoppo, e guai a trovarsi sulla loro strada. Perizia di soldati, si dirà, di maestri d’arme. E mille sono i turbanti, rossi, gialli, arancioni, e quelli blu, che son più grandi e son per i guerrieri, appunto. Nihang, si chiamano, o akali, gli immortali, e questa è, appunto, la festa dedicata a loro, il corpo dei difensori della fede sikh, una delle principali religioni d’India, fondata alla fine del XV secolo da Guru Nanak. Sono loro i mitici eroi che, schivi, quiescenti, dai loro eremi solitari in qualche tempio (o gurdwara), convengono qui, ad Anandpur (la Città della beatitudine), nello stato del Punjab indiano. Anandpur Sahib, anzi, col titolo di rispetto (Sahib, «signore») con i quali i sikh usano personificare anche le cose sacre.

Le celebrazioni della festa dell’Hola Mohalla si tengono tutti gli anni, di solito di marzo, intorno al Capodanno del calendario Nanakshahi, in uso tra i sikh. Cade in concomitanza col festival dei colori indù, lo Holi, ragione per cui oggi mi trovo coperto di polvere colorata. La gente mi ferma per strada e, attingendo dal suo sacchettino, si mette a tingermi guance e fronte come fossi un guerriero apache. Ma sempre col sorriso sulle labbra, s’intende, che son giorni di grande letizia. 

Se ci si reca in qualsiasi altro periodo dell’anno, Anandpur Sahib si direbbe una cittadina tranquilla adagiata laddove il Sutlej, uno dei cinque grandi fiumi del Punjab (le «cinque acque») dalle colline prehimalayane sfocia quieto giù in pianura, prima della sua corsa verso l’Indo. Si noterebbero, però, vari edifici, più o meno imponenti, che ne farebbero sospettare l’importanza. Come, per esempio, il tempio di Takht Keshgarh Sahib. È proprio là, sulla collina su cui sorge, infatti, che il decimo, nonché ultimo guru sikh, Gobind Singh, fondò, nel 1699, il Khalsa, ossia l’ordine guerriero dei «puri», cui fan capo anche i Nihang, al fine di contrastare le vessazioni del sovrano Moghul Aurangzeb, uno dei più intransigenti fautori della sharia, la legge islamica, che aveva fatto decapitare suo padre, il nono guru, e combattendo il quale morranno anche i suoi figli.

Fu Gobind che istituirà il battesimo con l’amrit, l’acqua benedetta che dà il nome alla città santa di Amritsar (Vasca del nettare), pure nel Punjab (nella porzione rimasta all’India dopo la creazione del Pakistan, nel 1947), dove sorge il Tempio d’Oro, il principale centro spirituale. Fu lui anche che decise di cancellare le distinzioni di casta, stabilendo un unico cognome per tutti i fedeli uomini (Singh, leone) e donne (Kaur, principessa); che istituì il divieto di tagliarsi barba e capelli, protetti poi sotto il turbante, e l’obbligo d’indossare il kirpan, il pugnale simbolico, e altri accessori affinché apparisse subito chiara l’affiliazione al credo. Fu ancora Gobind a decidere che, morto lui (1708), nessun altro essere umano sarebbe diventato guru, carica che passò al libro sacro, il Guru eterno, l’Adi Grant, o Guru Grant (e anche lui) Sahib, completato in gurmukhi, l’alfabeto della lingua punjabi, dal Guru Arjan, il quinto, nel 1604, che è recitato ogni giorno senza sosta, al suono del kirtan, la musica sacra, in tutti i gurdwara.

Per questa festa, però, come dicevo, Anandpur Sahib è gremita. Si gira solo a piedi e ogni via, dietro la linea continua dei negozietti d’articoli religiosi, nasconde un cortile dove per tre giorni si sono affrontati i guerrieri. Fuori dal Takht Keshgarh Sahib, i fedeli s’accalcano a tutte le ore per vedere le leggendarie armi di Govind e rendere omaggio al libro. Anche il langar era affollato, oggi. È la mensa annessa a ogni tempio, gratuita e aperta a tutti, gestita da volontari e finanziata dai devoti. In una situazione come questa, era l’unico posto dove m’è parso logico mangiare. Meglio così, perché, seduto su una stuoia in una delle molte file ordinate, insieme agli altri pellegrini, la mia ciotola di metallo in mano in attesa della pietanza, rigorosamente vegetariana, ho conosciuto il mio vicino di spalla. S’è voltato, m’ha squadrato e ha detto: «È da mezz’ora che mi chiedo che cosa l’ha spinta qui». È venuto fuori che si chiamava Robert (Robert Singh!), che era dell’Oregon, USA, e che, da protestante che era, s’è convertito una decina d’anni fa al sikhismo. Infatti, sotto quel turbante giallo, e con il pugnale alla cintola e il braccialetto d’acciaio (il kara, un altro dei simboli sikh) al polso, era ben mimetizzato. Ha detto che s’è trasferito qui vicino, nel Punjab, ha preso moglie (una Kaur!) e si trova bene. Spesso ci torna, in America, ma la famiglia lo tratta ora come una specie di extraterrestre. Lui però tira dritto. È la prima volta che partecipa a questa festa, ma ha detto che ci tornerà, che ci ha sentito forte il richiamo della fede.

Io, invece, richiami non ne ho sentiti, a parte quello della gran curiosità e passione che mi spinge ogni volta ad avventurarmi nelle più svariate plaghe di questo nostro pianeta. O forse sì. Ho sentito, di nuovo, quanto è potente la mia fiducia nella gente. E quanto, di rimando, quella fiducia mi faccia sentire cittadino universale.