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Venticinque anni di jazz a Chiasso

Rassegne: si è chiusa con un ottimo bilancio, artistico e di pubblico, un’edizione assolutamente unica del festival jazz nella cittadina di confine
/ 18/03/2024
Alessandro Zanoli

Gli anniversari sono un’occasione per valutare un percorso compiuto, per riguardare avvenimenti trascorsi e tirare una sorta di bilancio. In ciò che riguarda l’edizione numero 25 del «Festival di musica e cultura jazz» di Chiasso possiamo dire che, tra jazzofili, l’impegno nell’azzardare confronti, nello stilare classifiche, nel muovere critiche tra passato e presente, è stato grande. Molti di loro, presenti alle tre serate (e al pomeriggio domenicale speciale) hanno rievocato con trasporto le numerose scoperte e sorprese che il festival ha prodotto negli anni. A cominciare dalle suggestive intitolazioni («Who Shot Miles Davis?», «56 balene per Mingus», «Come un fiammifero nella notte», «Dove sono quei maledetti canguri?») diventate leggendarie, per poi meravigliarsi per le varie dislocazioni negli spazi più sorprendenti (le prime edizioni nel Teatro in procinto di essere ristrutturato, poi ai Magazzini FFS, alla Fabbrica Calida, allo Spazio Officina, prima in ristrutturazione e in seguito nella sua nuova fisionomia, e infine il rientro nel Cinema Teatro).

Gli esercizi di chiacchiera specialistica sono stati quindi assai apprezzabili. Qui si esplica l’attività che rende giustizia alla denominazione del festival; è qui, cioè, che viene praticata quella «Cultura jazz» di cui orgogliosamente si fregia. E alla domanda «Cos’è la cultura jazz?», potremmo rispondere con Eric Hobsbawn, autore della fondamentale Storia sociale del jazz: «Il jazz è anche i luoghi dove è suonato, le strutture commerciali e tecniche dalle quali è circondato, i rapporti che crea. Coloro che ascoltano il jazz, che scrivono di jazz, che leggono di jazz, sono il jazz».

Procediamo quindi nel resoconto delle tre serate, più un pomeriggio, che hanno visto il Cinema Teatro assumere una sua configurazione più originale, aperta, aiutata anche da una piacevole impostazione scenografica. La programmazione musicale è stata particolarmente variata. Ad alcuni gruppi che si annunciavano in partenza come eventi di assoluto rilievo si sono alternate formazioni e artisti meno conosciuti ma realmente interessanti.

Tra questi il cantante e solista di oud tunisino Dhafer Youssef, che poteva essere considerato un artista più adatto a Festate, che a un festival jazz. Il vivace caporchestra ha invece strabiliato con una world music dai ritmi intricati e ipnotici, degna dei migliori Zawinul Syndicate (e la presenza al basso di Swaeli Mbappe, figlio del celebre Etienne, crea un legame diretto con quell’esperienza). Menzione speciale nel gruppo per il batterista-percussionista Adriano Dos Santos Tenorio.

Anche l’esibizione della cantante e pianista Kadri Voorand è stata pienamente convincente, per caratura solistica e doti di entertainer dell’artista estone. Di grande suggestione poi il quartetto del trombettista polacco Piotr Schmid, dalla tecnica controllata e chirurgica. Il suo omaggio al trombettista connazionale Tomasz Stańko è stato molto preciso, senza sbavature. Ultima menzione, nel gruppo degli artisti meno conosciuti, per l’eccezionale sassofonista nigeriano-britannica Camilla George, che ha proposto un jazz intessuto di schiette reminiscenze africane. Il suo stile al sax alto è estremamente preciso e nitido, così come la sua presenza sul palco è imponente, nonostante la figura minuta. Si è trattato di una vera sorpresa, in particolare in rapporto all’idea che il «nuovo» jazz debba nutrirsi necessariamente di influenze hip-hop. Qui si è risentito con piacere il sound di certi album afro-jazz alla (Abdullah Ibrahim) Dollar Brand anni 70.

Un accenno finale per i grandi nomi. Veramente spettacolare e magnetica l’esibizione di Antonio Sanchez con il suo quartetto. Il batterista messicano è uno dei maggiori specialisti del suo strumento, ma soprattutto ha dimostrato una grande attenzione e capacità di compositore, in una band che asseconda in modo perfetto la sua scelta stilistica di essenzialità e di intelligenza. Perfetti e impeccabili anche i membri del trio Rymden, che cercano di dare una svolta originale all’eredità raccolta dal trio del compianto Esbyörn Svensson. Mentre Dan Berglund al contrabbasso e Magnus Öström alla batteria sono ancora gli stessi di allora, Bugge Wesseltoft alle tastiere non cerca mai di sostituirsi a Svensson, e grazie a lui la musica prende un’altra, apprezzabilissima, direzione.

Unico svizzero in cartellone, il trombonista Samuel Blaser ha proposto una curiosa rievocazione del sound jamaicano del collega Don Drummond, storico membro degli Skatalites. Il progetto, sincero, sembra riuscito a metà. Ultimissimo accenno «ticinese» al concerto domenicale con la New Azzan Big Band di Claudio Belloni. Ha proposto il suo sound vellutato e raffinato, per certi aspetti miracoloso, dovuto a un inossidabile caporchestra e a un gruppo di dilettanti encomiabili. Vera cultura jazz, anche questa.