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La carica delle donne pop
Se Taylor Swift e le altre dettano l’agenda e fanno girare il mercato
Virginia Antoniucci
Icona pop, imprenditrice miliardaria, e, secondo alcuni (soprattutto i Repubblicani), l’asso nella manica di Biden per vincere le prossime elezioni presidenziali statunitensi: non c’è giorno che passi senza imbattersi nel nome di Taylor Swift. Prima cantante nominata Persona dell’Anno dal «Times», la superstar americana ha conquistato quattro Grammy per il miglior album superando persino il record di Elvis Presley come artista solista con il maggior numero di settimane in cima alla classifica di Billboard. A soli 34 anni. Ma, in mezzo a tanta gloria, è pure stata eletta la celebrità più inquinante dell’anno. D’altra parte, nello star system, poche figure incantano e irritano simultaneamente come l’ex regina del country e sovrana del pop, diventata il fenomeno musicale mainstream per eccellenza.
La sua ascesa incarna il sogno americano: l’autorealizzazione attraverso il successo e il denaro, plasmata dall’animo contraddittorio dell’America, dove la fama si costruisce con la stessa facilità con cui si distrugge. Mentre negli Stati Uniti si ergono altari alla sua gloria, in Europa, ancora lontani dal culto religioso che gli americani riservano alle loro celebrità, Taylor Swift appare come un’illusione collettiva, una divinità astratta che fa chiedere a tutti perché piaccia così tanto, ma soprattutto perché sia odiata altrettanto intensamente.
Oltreoceano, l’effetto Taylor non è un virus che ha invaso solo le pagine patinate dei settimanali: con la recente relazione con Travis Kelce dei Kansas City Chiefs, ha contagiato anche il giornalismo sportivo. Tutti vogliono conoscere ogni dettaglio della sua vita e tutti vogliono dire la propria. Le sue decisioni politiche, le sue amicizie e le sue relazioni amorose sono esaminate con attenzione dalla lente d’ingrandimento di chi sembra non stancarsi mai di mettere sotto esame le donne famose.
Lo scotto da pagare per essere la «persona più influente dell’anno» è che Taylor Swift ogni giorno si sveglia e sa che dovrà correre più veloce di chiunque altro uomo per meritarsi ciò che a loro viene concesso per diritto di nascita. Deve essere irrealmente perfetta e moralmente integra, la fidanzata d’America, bionda, snella, bianca, con i suoi look zuccherini da personaggio di Polly Pocket. Ma non è mai abbastanza.
Malgrado il suo enorme successo, Taylor Swift è costantemente sotto i riflettori, scrutata e giudicata. Se è fidanzata, ecco il famigerato articolo del «The New York Times» firmato da Anna Marks che l’addita come lesbica in incognito; se vince un Grammy, Kanye West le dice in mondovisione che non se lo merita; se parla delle sue delusioni d’amore, la sua musica viene etichettata come «pop vittimista»; se rifiuta di rispondere a domande sessiste, interviene l’accusa di femminismo «performativo», utilizzando l’attivismo come una mossa di marketing per difendersi dalle critiche e promuovere la sua musica.
Non bisogna militare negli Swiftie, i suoi fan accaniti, per capire che le truppe anti-Taylor hanno abbracciato con troppo zelo la frase di Gustav Le Bon: «Le folle non hanno mai avuto sete di verità. Dinanzi alle evidenze che a loro dispiacciono, si voltano da un’altra parte, preferendo deificare l’errore, se questo le seduce».
Sembrerebbe che aggettivi come ambizioso e determinato non calzino bene al femminile, non quanto opportunista e calcolatrice.
Girl economy
Non importa se l’Eras Tour di Taylor Swift, il suo show mondiale, abbia rimpolpato il PIL americano generando un giro d’affari di oltre 5 miliardi di dollari; per i media tradizionali, una donna che non nasconde il suo successo è la principale sospettata per qualsiasi crimine della buon costume.
Più la star mondiale accumula potere e denaro, più diventa il «punchball» di chiunque voglia sfogare un po’ di frustrazione.
Da un lato, è un’icona sacra d’indipendenza, che da sola ha costruito un impero infrangendo ogni record nell’industria musicale. Dall’altro, una celebrity che inquina con il suo jet privato per puro capriccio, accusata di sfruttare il suo status sociale per arricchirsi a spese dei propri fan, vendendo edizioni limitate di album a prezzi esorbitanti e promuovendo una cultura del consumismo esasperato.
Sull’onda di Taylor Swift, Beyoncé con il suo Renaissance Tour, la nazionale femminile di calcio spagnola vincitrice dell’ultimo mondiale e la carica cinematografica femminista capitanata da Barbie hanno dato vita a nuovo concetto: la girl economy, un’economia femminile generata da donne e alimentata, principalmente, dalle stesse che spaventa anche i manipolatori finanziari in imbarazzo di fronte alle donne armate di carte di credito e dotate di conoscenza socio-economica.
Come sostiene l’economista Azzurra Rinaldi, autrice di Le donne non parlano di soldi (Rizzoli 2023), non è un caso che il primo passo dell’abusante, per tenere la donna sottomessa, sia privarla di una fonte di guadagno. Di riflesso non sorprende una società che si irrigidisce e si oppone all’emergente potere finanziario femminile sminuendolo.
Mentre si applaude all’empowerment che promuove, molti ci vedono una forma di femminismo addomesticato, pronto a capitalizzare i movimenti sociali in nome dell’emancipazione.
Esaminando gli Swiftie, ci rendiamo conto che la girl economy non ruota solo attorno al consumismo sfrenato tinto di rosa (pinkwashing), ma fa leva anche sul supporto reciproco, la solidarietà e la condivisione di esperienze femminili. I fan non si limitano ad acquistare la musica e il merchandising di Taylor Swift; sono loro il motore che la spinge costantemente al vertice delle classifiche con streaming incessanti.
I media ci hanno sempre servito delle ottime ragioni per cui indignarci, ma dei capri espiatori sbagliati. Il rischio è di essere manipolati da una narrazione patriarcale che vuole vedere donne contro donne.
Taylor Swift non è una persona perfetta e il femminismo non la esonera dall’essere messa in discussione, ma ogni tanto isognerebbe chiedersi perché molti desiderino così tanto la caduta di una donna senza lasciarle vivere quella gloria che un giorno potrebbe essere accessibile a molte di più.