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La Berlinale e la sua città meno unite di un tempo
Cinema ◆ Un racconto dell’edizione appena conclusa tra vincitori, partenze e polemiche politiche
Nicola Falcinella
Nel febbraio 2000 il Theater am Potsdamer Platz, progettato da Renzo Piano e inaugurato nei mesi precedenti, divenne la sede del Berlino Film Festival. La piazza divisa dal Muro, location indimenticabile de Il cielo sopra Berlino (1987) che aveva ospitato l’enorme concerto di Roger Waters del ’90, da più grande cantiere d’Europa stava diventando il simbolo della metropoli riunita che riprendeva un nuovo ruolo a tutti i livelli.
Nel passaggio tra i direttori Moritz de Halden e Dieter Kosslick, entrambi in carica per circa due decenni, il festival visse un’epoca d’oro. Da una parte la tradizionale attenzione ai temi politici e sociali, l’apertura all’est (che dal blocco ex sovietico e il Medio Oriente s’allungava al Pacifico), dall’altra le anteprime di grandi film americani quali La sottile linea rossa, Magnolia o Il petroliere. In parallelo la crescita dell’European Film Market, capace di avvicinarsi a quelli di Cannes e Los Angeles.
Il mondo del cinema è più in fermento di quanto sembri, così il cambiamento di strategie degli Studios americani in vista degli Oscar, l’aumento dei costi per ospitare le grandi star, la crescente concorrenza tra le manifestazioni internazionali e il procedere della globalizzazione nelle sue infinite ripercussioni hanno prodotto molti cambiamenti negli anni seguenti.
La Berlinale ha resistito alle scosse sempre più forti accumulatesi nell’ultimo quindicennio grazie al prestigio, alla storia e alla forza politica ed economica della Germania (non è secondario che sia tra i Paesi più impegnati nelle coproduzioni e proprio le coproduzioni tedesche costituiscono una parte sostanziosa del programma del festival), facendo di necessità virtù, rinunciando a qualche nome di primo piano per dedicarsi alle scoperte.
La globalizzazione ha fatto sì che la Berlinale perdesse alcune connessioni con la città che lo ospita, fenomeno comune alle grandi kermesse, ma non privo di pericoli
Se il fenomeno dell’internazionalizzazione ha ovunque stravolto manifestazioni e città, Berlino è diventata uno dei fulcri del cambiamento e uno degli esempi più vistosi dell’omologazione forzata. Capitale ufficiale e capitale della cultura underground, la metropoli del Brandeburgo teneva insieme tante anime che vi trovavano i loro spazi. L’esplosione dalla Gig economy, i grandi gruppi che gestiscono ricettività e appartamenti in affitto, gli acquisti di immobili da parte dei grandi fondi di investimento e la gentrificazione dilagante hanno portato a un aumento sconsiderato del costo della vita berlinese e a nuovi assetti cittadini. La stessa Potsdamer ha perso importanza e centralità, con la chiusura dell’iconico Sony Center e della sottostante multisala, i tanti lavori che hanno interessato centri commerciali e strade limitandone l’utilizzo. Così il festival ha dovuto cercare sale più distanti, anche per le proiezioni stampa, costringendo gli addetti ai lavori a corse in città o a ritrovarsi i pomeriggi quasi senza proiezioni. Queste difficoltà logistiche rischiano di aumentare con l’annunciato trasferimento del Kino Arsenal, gestito dal Museo del cinema, in altre zone di Berlino.
La globalizzazione ha fatto sì che la Berlinale perdesse alcune connessioni con la città che lo ospita, fenomeno comune alle grandi kermesse, ma non privo di pericoli: i festival sono corpi vivi, non sono interscambiabili e si innestano nello spirito delle città che li generano.
Berlino è una città di tante minoranze molto attive e molto radicali e il festival in questi anni ha mostrato molta attenzione alle questioni di genere e ambientali (anche con iniziative più di apparenza che di sostanza) e, soprattutto quest’anno, al post-colonialismo.
Le contraddizioni che a volte covano soltanto sotto la cenere, sono esplose stavolta con le polemiche della serata di premiazione. La consegna dei premi si è trasformata quasi in una protesta filo-palestinese e anti-Israele per la quale qualcuno premeva dall’esterno fin da inizio festival. È si è riaperta la ferita che in Germania brucia sempre. Il regista americano Ben Russell, che con Guillaume Cailleau aveva vinto il premio della sezione parallela Encounters Direct Action, è salito sul palco indossando la kefiah e parlando di un genocidio in atto a Gaza. A questo sono seguiti i gesti e le parole delle giurate Véréna Paravel e Jasmine Trinca e dei registi Basel Adra e Yuval Abraham, uno arabo l’altro israeliano autori di No Other Land. Messaggi che hanno indotto il sindaco di Berlino Kai Wegner, presente alla cerimonia, a ribadire che «Berlino è saldamente dalla parte di Israele».
Questi contrasti, che danno voce a divisioni purtroppo molto profonde e radicate nell’opinione pubblica, hanno un po’ rovinato la festa per l’addio del direttore artistico Carlo Chatrian, che, con il direttore esecutivo Mariette Rissenbeek, ha gestito cinque edizioni difficili, cominciando dal trovarsi ad affrontare la pandemia. L’edizione di fine febbraio 2020 si tenne in un clima di preoccupazione crescente e fu l’ultima prima della lunga chiusura generale; nel 2021 Berlino è stata, con Rotterdam, l’unica grande rassegna a tenere un’edizione online; nel 2022 il lento ritorno con i vaccini e i tamponi quotidiani; il 2023 e 2024 con la riapertura totale.
Se si guardano i film premiati e i registi lanciati, i bilancio del valdostano ex direttore di Locarno è positivo. Sul fronte più generale e politico, è stato criticato per non aver dato abbastanza spazio al cinema di casa e non aver portato molte star.
A volte i direttori si prendono le responsabilità di scelte non loro, dovendo mediare e adeguarsi alle circostanze. Il piazzamento dei film nei festival, soprattutto quelli più attesi e richiesti, è spesso fatto dai grandi venditori internazionali, dalle distribuzioni o dai produttori, a seconda delle strategie distributive o della corsa ai premi. I direttori e i selezionatori lavorano soprattutto sui rapporti personali: non è un caso che Carlo Chatrian abbia portato a Berlino i registi lanciati o ospitati a Locarno, da Radu Jude a Hong Sangsoo, da Tom Wilkerson a Matias Piňeiro.
La sostituta già annunciata Tricia Tuttle avrà un compito difficile: arriva da Londra, che è un altro grande festival cittadino, ma con caratteristiche completamente differenti, non si fonda sulle anteprime mondiali e corre meno rischi, scegliendo tra film già passati tra Cannes, Venezia, Toronto, Telluride, San Sebastian o la stessa Locarno. Tuttle prenderà in mano un festival che festeggerà le 75 edizioni dovendo abituarsi al ricollocarsi di anno in anno: l’augurio è che tenga conto di storia e novità, senza inseguire troppo le mode del momento.
La selezione 2024 è stata abbastanza buona, con un bel gruppo di film riusciti (quasi tutti i premiati del concorso). Logico, tirando le somme, l’Orso d’oro a Dahomey della franco senegalese Mati Diop (nella foto) che era stata premiata a Cannes nel 2019 con l’esordio Atlantique. Un documentario politico sulla restituzione di 26 statue antiche dalla Francia al Benin, che parla di decolonizzazione in modo molto simile a Pepe del dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias, la rivelazione del concorso e vincitore dell’Orso d’argento di miglior regista.
Si deve consolare con i premi della giuria ecumenica e della stampa l’iraniano My Favourite Cake, insolita commedia sociale e sentimentale su un amore della terza età. In Hors du temps Olivier Assayas riflette in maniera autoironica sul periodo del covid e del confinamento, sul tempo sospeso, sulla riscoperta delle origini e le convivenze forzate. Tra le sorprese l’italo-svizzero Gloria! dell’esordiente Margherita Vicario, una curiosa e liberatoria favola musicale nella Venezia del 1800.