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Bibliografia

Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi, Torino, 2023.


«Mi interessa raccontare i luoghi nella loro verità»

Interviste   ◆  La scrittrice Donatella di Pietrantonio racconta il suo romanzo L’età fragile, tratto da un fatto di cronaca nera
/ 04/03/2024
Laura Marzi

«È stato doloroso crescere Amanda. Io non la capivo, non capivo cosa volesse da me. Avevo paura di restare sola con lei»: Donatella Di Pietrantonio (nella foto), vincitrice del premio Campiello con il romanzo L’Arminuta (Einaudi, 2017) e finalista al premio Strega con Borgo Sud (Einaudi, 2020) torna con un romanzo sul materno, ma non solo. In L’età fragile racconta anche un terribile delitto avvenuto nel 1997, l’uccisione di due ragazze e il tentato omicidio di una terza che si salvò e testimoniò per dare giustizia alle altre, il cosiddetto delitto del Morrone nel parco della Majella in Abruzzo.

In L’età fragile che è il suo quinto romanzo decide di trarre per la prima volta spunto da un fatto di cronaca nera. Come mai? Come definirebbe tale richiamo?
Quello che mi ha spinto è stato un ricordo affiorato all’improvviso, dopo tanti anni dall’episodio reale. Mi sono chiesta come mai non avessi più pensato a un duplice femminicidio avvenuto su una montagna che posso vedere dalle finestre di casa mia. Eppure conservo abitualmente nella memoria i grandi fatti di cronaca accaduti in Italia. Evidentemente ero entrata anch’io nello spazio di un rimosso collettivo, che aveva riguardato tutta la nostra comunità. Avevamo dimenticato presto un delitto che confliggeva con la narrazione che sempre ci facciamo del nostro luogo di nascita e di restanza: un posto reso meraviglioso dai boschi, dai prati, e soprattutto un posto sicuro. Una volta che ho ricordato, quell’episodio non mi ha più lasciata in pace. Ho voluto rinominarlo con le parole dell’oggi. All’epoca non esistevano nemmeno le parole per dirlo, il termine femminicidio era di là da venire.

Lei scrive sempre della sua terra e lo fa, è evidente, dopo aver percorso i luoghi in cui si svolgono i suoi romanzi. In L’età fragile la magistrata Manfredi, il pubblico ministero che rappresenta l’accusa al processo, dice: «La natura è bella per i ricchi, non se devi lavorarci come schiavo». Che cosa ne pensa di un certo approccio utilitaristico, superficiale alla natura?
A me interessa raccontare i luoghi nella loro verità, almeno quella che io vedo da dentro, da abitante. Da fuori l’immagine di certi posti è sempre stereotipata, schiacciata in una sola prospettiva, quella del turista che arriva e vede la superficie: l’aria pura, gli arrosticini, un paesaggio montano a poca distanza da Roma, buono per andarci il fine settimana. Ma io non scriverò mai cartoline dall’Abruzzo e se continuo a portarlo nei miei libri è solo perché mi interessa come rappresentante di tutte le terre interne, innervate dalla dorsale appenninica. Mi interessa la loro discendenza da un mondo arcaico, pastorale, chiuso e patriarcale.

Come altri suoi romanzi, Mia madre è un fiume o L’arminuta, questo è un testo anche sul materno: che cosa la ossessiona del materno, la complicatezza inesauribile di dare vita all’estraneità?
Personalmente ho avuto un rapporto difficile con il materno, da bambina e da ragazza. Mi ossessionano le cicatrici che di una madre non riuscita ci portiamo nella vita, sempre, per quanto vogliamo conoscere e curarci le ferite di quella relazione rimasta storta o incompiuta. Come sia facile ricadere nel malessere se è mancato quel primo nutrimento. Come siamo dipendenti da quello sguardo così necessario nella fase che precede il nostro diventare altro da chi ci ha partoriti.

In L’età fragile, però, c’è un passaggio fondamentale, c’è un rapporto padre-figlia al centro della storia, anch’esso connotato da incomunicabilità. Che cosa accomuna e che cosa distingue per lei queste due relazioni?
Per la prima volta in un mio libro c’è una larga presenza maschile e il personaggio più forte è proprio il padre di Lucia. È stato un patriarca, duro, roccioso, ma anche molto presente nella vita di lei. Non è stato facile combatterlo, emanciparsi, liberarsi dai lacci che le stringeva intorno. Non è stato facile proprio per questa sua presenza che sapeva essere anche amorevole, nel silenzio. Ciò che sempre trovo interessanti sono proprio le ambivalenze dei rapporti familiari che cerco sempre di raccontare nelle loro complessità.

Lei ha aderito alla campagna Unite, una chiamata rivolta alle scrittrici italiane perché si esprimessero sul tema della violenza contro le donne o con una riflessione o raccontando un’esperienza personale. Le va di parlarcene?
Ho dato volentieri il mio contributo all’azione letteraria Unite, d’altra parte è questo che so fare, non poteva essere diversa la forma della mia partecipazione. Poi, sul potere trasformativo della letteratura nella società, non saprei dire, intanto bisogna vedere quanti leggeranno i nostri contributi, quanti ne resteranno colpiti. Ma io credo che in questa battaglia universale l’importante sia dare, ognuna e ognuno per quello che può, senza calcolare la portata della propria efficacia. I risultati, spero, arriveranno, come somma di innumerevoli interventi individuali, compresi quelli volti a un rinnovamento di un linguaggio che si è strutturato nei secoli intorno a una matrice maschilista.