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L’elegia e il grido di Sabine Hess

Fotografia  ◆  La giovane fotografa che vive tra Svizzera e Inghilterra parla del suo libro ispirato dalla malattia del padre
/ 26/02/2024
Luca Fiore

«Anche se non ti vedo più, e il tuo corpo è ora cenere, sei ancora lì, da qualche parte?». Classe 1994, di casa tra Biel e Londra, Sabine Hess si è laureata al London College of Communication nel 2022, specializzandosi in fotogiornalismo e fotografia documentaria. Al padre Wolfgang, che ha perso pochi anni fa, ha dedicato il suo lavoro di diploma, ora diventato un libro, You Felt The Roots Grow (Tu senti le radici crescere, come suggerisce anche la foto del campo di fiori contenuta nel volume), copubblicato lo scorso anno dall’editore italiano Witty Book e dalla svizzera Ciao Press. Nonostante la giovane età dell’autrice, si tratta di un lavoro di grande spessore artistico e umano. Un’elegia e un grido. Le raffinate fotografie in bianco e nero si alternano a brevi testi asciutti ed essenziali (in inglese) che trattano il grande tema della vita e delle sue domande, inquadrandolo dal punto di vista di chi, la vita, la vede andare via. Non aspettatevi però un reportage tra ospedali e case di cura. Nessuna ostentazione del dolore. Niente sociologia. L’approccio è personale e poetico. «A volte ho cercato di buttarti via come una coperta pesante», scrive Sabine: «Ero stanca delle tue opinioni, delle cose che dicevi, del modo in cui ti comportavi. Ora mi manca il calore della tua protezione». Vediamo Wolfgang con una coppola di lana che gli copre il cranio pelato, che rivediamo poi medicato da una garze e cerotti. Ma vediamo anche un bosco fitto di rami spogli. Una ragnatela. Uno stormo di uccelli neri nel cielo grigio. La mano di una donna con una fede nuziale che stringe il braccio di un uomo. «Io continuo a sperare. Penso che tu lo faccia ancora». Fiori di campo. La testa di un neonato. I nodi delle radici di un grande albero. «Mio padre era ammalato dal 2014. Aveva un tumore al cervello, ed è stato operato più volte», ci spiega la fotografa: «Ma la prima volta che ho scattato delle foto di lui e mia madre, in relazione alla sua malattia, è stato nel 2019. Lui è morto due anni dopo».

Che esperienza è stata?
È stato un periodo lungo, in cui la mia famiglia ha cercato di continuare la vita di tutti i giorni, senza che la cosa prendesse il sopravvento. Abbiamo imparato a pensare che c’era sempre la possibilità che mio padre dovesse tornare in ospedale. Se ne parlava, certo. Anche se qualche volta preferivamo far finta che andasse tutto bene. Ma dopo il sesto o il settimo intervento chirurgico, ho preso un rullino e ho realizzato alcune immagini.

Aveva già in mente che cosa sarebbe diventato?
No, all’inizio era soltanto la volontà di riconoscere che c’era qualcosa che si ripresentava: prendere coscienza che la malattia di mio padre stava avendo un impatto sulla mia famiglia. Poi, quando ho guardato quelle fotografie, mi sono accorta che c’era qualcosa di profondo. Qualcosa di importante. È stata anche l’occasione perché si aprisse, tra me e lui, un dialogo sulla sua malattia e, forse, anche sulla relazione tra noi due.

Ha cominciato anche a fotografare sua nipote, a un certo punto.
Era la fine del 2020. Ellie è la prima figlia di mia sorella. Martina è tornata a casa dopo il parto lo stesso giorno che mio padre rientrava dall’ennesima operazione. Era il periodo della pandemia e non eravamo potuti andare a trovare nessuno dei due. Era stato un travaglio difficile. E anche l’intervento per il tumore aveva avuto dei problemi. Così rivedere entrambi lo stesso giorno è stato un momento davvero intenso. I due estremi della vita, la nascita e la morte, si sono incontrati. È stata un’esperienza bellissima. Un istante dolce, che aveva in sé la consapevolezza che non sarebbe durato per sempre. Io e le mie sorelle ci siamo accorte, all’improvviso, di essere diventate grandi.

È lì che è nato il progetto?
Ero ancora all’università e si trattava di scegliere un lavoro a lungo termine. Ho pensato che ciò che stava accadendo alla mia famiglia potesse funzionare. Mia nipote Ellie aveva un mese, era la sua prima estate. Per mio padre sarebbe stata l’ultima.

Nel libro le immagini sono alternate con testi brevi.
Li ho scritti cercando di dar conto delle emozioni complesse e contrastanti che mi attraversavano in quel periodo così triste e, a tratti, disperato. Il rapporto tra nonno e nipote, padre e figlia e anche tra marito e moglie. I miei sono stati insieme quasi quarant’anni, dopo così tanto tempo si è quasi un unico organismo. Come si fa a pensare che questo non durerà per sempre? Come si definisce se stessi e come cambia la propria vita in una situazione del genere?

Eppure le immagini non mostrano il dolore in modo esplicito.
Ho scelto di non fotografare in modo diretto ciò che effettivamente accadeva in casa nostra. È tutto molto evocativo e simbolico. Ho preferito rivolgermi più all’esterno, alla natura: gli alberi e gli animali. Lì ho come ritrovato ciò che accade al nostro corpo con la malattia. Spesso le descrizioni mediche sono astratte e, in fondo, incomprensibili. Io ho provato a parlare di queste cose in modo più emotivo e simbolico. Si è creato quindi questo doppio registro: l’interno e l’esterno, le persone e la natura. In quel periodo, per me, è stato molto utile stare in mezzo alla natura, era un posto sicuro e mi ha permesso di trovare un mio equilibrio interiore.

Che cosa attirava la sua attenzione?
Attraverso le immagini e le parole era come se volessi registrare il più possibile ciò che mi stava accadendo in quel periodo. Il nostro cervello è fatto in modo che dimentichiamo facilmente i gesti più normali, anche quelli che abbiamo fatto con qualcuno con cui abbiamo vissuto venti o trent’anni.

Che rapporto c’è tra testo e immagini?
La fotografia tocca gli aspetti più emotivi. Il testo, mai lungo, suggerisce piccoli aspetti normali della vita quotidiana che permettono al lettore, mentre sfoglia il libro, di seguire la storia. Il lavoro di sintonizzare bene le fotografia e i miei scritti è stato molto lungo.

I due proroganti, diceva, sono suo padre e sua nipote.
Sì, anche se in realtà il libro è più incentrato su di lui che su di lei. Poi, in realtà, penso che il libro sia su me stessa. Sulla mia esperienza di figlia, su che cosa significhi perdere un genitore per la prima volta, sull’esperienza della fragilità delle nostre vite, sulla precarietà del corpo umano. La fragilità si vede, contemporaneamente, nel corpo di mio padre che diventa sempre più debole, e in quello di mia nipote neonata. La situazione di mio padre ha dato inizio a tutto. Ma il tema del libro è anche quel sentimento agrodolce dello stare insieme alle persone che ami, senza sapere se certi momenti belli si potranno rivivere.

Perché questo titolo, You Feel The Roots Grow?
«Senti le radici crescere». I testi che ho scritto si rivolgono sempre a un tu, e quel tu è mio padre. Per me la radice è il simbolo di qualcosa che cresce senza che noi lo vediamo. C’è qualcosa di visibile e qualcosa di invisibile che, come nel caso di mio padre, cresceva di nascosto generando in lui e in noi la sensazione che qualcosa potesse arrivare e mostrarsi da un momento all’altro. Mio padre ha sempre sentito che c’era qualcosa che in lui cresceva senza che lo vedesse.

Pensa che si intraveda, nel modo in cui ha affrontato il tema, il suo essere svizzera?
Non credo. Non so neanche bene come gli svizzeri affrontino di solito certe situazioni. Penso però che occorra parlare di più di questi temi. Guardare la propria vulnerabilità, condividere esperienze profonde e personali. È qualcosa che farebbe bene fare di più, anche a livello pubblico.

Perché è importante?
Sono esperienze che toccano tutti, in un modo o nell’altro. Parlarne, capire che ci sono diversi modi per affrontare il tema del lutto, potrebbe aiutare tutti. Condividere certe situazioni fa sentire meno soli. La fotografia e la scrittura mi hanno accompagnato nell’affrontare il dolore della perdita. Ho avuto anche la fortuna di avere il sostegno della mia famiglia e del mio partner, senza i quali questo libro non sarebbe mai esistito. Mi auguro che ciò che ho mostrato possa essere di una qualche utilità anche per altri. Mi è capitato che qualcuno, dopo aver sfogliato il libro, abbia voluto raccontarmi la sua esperienza. È stata una cosa molto bella.