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La zona d’interesse
Cinema – Il film di Jonathan Glazer ci parla in modo inedito e con grande forza dell’Olocausto
Nicola Mazzi
Per Alfonso Cuarón (il regista di Roma, con il quale ha vinto l’Oscar per la Miglior regia nel 2019) è «probabilmente il film più importante di questo secolo, sia per il suo approccio cinematografico che per la complessità del tema che tratta». Stiamo parlando de La zona d’interesse, il film del britannico Jonathan Glazer, che è arrivato nelle sale della Svizzera italiana dopo numerosi riconoscimenti come il Gran Premio della Giuria a Cannes e le cinque Nominations agli Oscar.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, uscito in italiano per Einaudi, l’opera di Glazer usa tutti i mezzi che il cinema mette a disposizione (suono, immagini, recitazione e montaggio) per creare un immaginario disturbante, originale e probabilmente anche definitivo sull’Olocausto.
Iniziamo dal titolo: La zona d’interesse (in tedesco Interessengebiet) era il nome usato dalle SS naziste per descrivere l’area di 40 chilometri quadrati immediatamente circostante il campo di concentramento di Auschwitz, ed era un eufemismo per ricordare la morte che circonda quel tragico luogo.
Ed è questo, il primo, importante, segnale, per comprendere come il film di Glazer non mostri il campo di concentramento, ma quello che ci sta attorno: in termini cinematografici generali non filma il campo, ma il controcampo. La pellicola racconta la quotidianità della famiglia Höss, del comandante di Auschwitz, e non la vita dei detenuti. Mostra la felicità dei bambini di Höss e non la sofferenza di quelli che stanno entrando nelle camere a gas. Ciò che noi vediamo è la routine di una famiglia tedesca borghese durante il secondo conflitto mondiale. Il fatto agghiacciante, quello che disturba la nostra visione e il nostro pensiero, è che il tutto si svolge nello spazio di pochi metri: la routine e la tragedia convivono nella stessa zona d’interesse, separate solo da un muro di cinta (come si vede nell’immagine).
Tutto ciò è messo in evidenza dagli strumenti del cinema. Anzitutto dal tappeto acustico. La colonna sonora non è la classica partitura musicale a sottolineare i momenti topici, alla Schindler’s List per intenderci, ma è un costante e fastidioso rumore di fondo. È il suono che sente Höss e la sua famiglia vivendo vicini al campo di concentramento. È il suono provocato dal filo spinato carico di elettricità del muro di cinta. Ma non solo. In lontananza, si sentono i colpi d’armi da fuoco, le urla, i passi di marcia: tutto il paesaggio sonoro della morte.
Anche le immagini contribuiscono alla sensazione di disagio. Il regista e la sua équipe hanno infatti utilizzato obiettivi grandangolari e inquadrature geometricamente centrate (un po’ alla Kubrick, per capirci), con l’obiettivo di eliminare tutto ciò che assomiglia alla bellezza. Da un lato «volevamo che la telecamera fosse come un occhio», ha spiegato il direttore della fotografia Lukasz Zal (già candidato due volte all’Oscar per i suoi precedenti lavori con Pawel Pawlikowski), che ha lavorato quasi esclusivamente con fonti di luce naturali o diegetiche. D’altro lato era importante raffreddare l’ambientazione: «Non bisognava estetizzare nulla, doveva restare tutto piatto. In questo senso abbiamo cercato di non manipolare l’immagine». Ed ecco fornita anche la spiegazione dei movimenti di macchina molto precisi, lenti e in definitiva trasparenti agli occhi del pubblico.
Perfetti nella parte, Christian Friedel e Sandra Hüller (già protagonista di Anatomia di una caduta). Se il primo è un Höss freddo, pacato, anche amorevole con i figli, la seconda è più sfacciata, diretta e anche – come è tipico dei nuovi ricchi – volgare. In altre parole, siamo davanti a un tipico funzionario delle SS che ha scalato la gerarchia militare fino a divenire il capo del campo di concentramento e la sua consorte. Interessante, in proposito, quello che dice a «Positif» la stessa attrice: «Glazer voleva evitare di riprodurre non solo quello che era già stato filmato sul tema, ma anche quello che si era già sentito. Questo non significa che quanto sia stato realizzato finora non fosse buono, ma che non era adatto al film». E per farlo ha usato una tecnica particolare ed è la stessa attrice a precisarlo: «La messa in scena sulla quale si basa il film è molto sperimentale. È stato come partecipare a una seduta spiritica e questo mi ha sollecitato a recitare in un modo diverso da quanto non avessi mai fatto». Un dispositivo che consisteva nel piazzare diverse camere nell’abitazione degli Höss senza far sapere agli attori quale stesse filmando. In questo modo sono stati lasciati liberi di recitare. Una sorta di grande fratello entro cui gli attori si sono trovati «soli davanti all’orrore che stavamo interpretando».
Infine il montaggio, l’aspetto che da Ėjzenštejn in giù è considerato lo «specifico filmico», ovvero la disciplina propria del cinema. In questo caso è strettamente funzionale e aderente al messaggio e quindi alterna scene interne alla casa a quelle in giardino; voci on a quelle fuori campo; dialoghi inerenti la vita famigliare ad altri che parlano della soluzione finale. Un’alternanza costante tra gli spazi filmati nell’abitazione verde e fiorita con quelli tragici uditi del campo di sterminio. Una dicotomia centrale del film che solleva una domanda: oggi, come ieri, siamo davvero innocenti?