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Sanremo come un buffet all you can eat

Si è conclusa sabato la settantaquattresima edizione del Festival canoro che non ha deluso ma neppure sorpreso
/ 12/02/2024
Guido Mariani

«Squadra vincente non si cambia» diceva Pippo Baudo che dal 1968 al 2008 condusse Il Festival di Sanremo con successo per 13 volte. Amadeus, invece, quest’anno ha segnato la cinquina con il grande merito di aver riconquistato il pubblico giovane e di aver mantenuto l’audience a livelli eccezionali. Lo share della prima serata di questa edizione, il 65,1%, è stato il suo risultato migliore e il dato più alto dal 1995. Un successo previsto. La RAI ha messo nelle casse pubblicità per circa 60 milioni di euro, che rappresentano più del 10% degli introiti pubblicitari annuali dell’azienda. Ma i 10,6 milioni di spettatori che erano davanti alla televisione saranno poi moltiplicati dal pubblico del web e dei social che ha già colto le sfumature più curiose e maliziose della kermesse.

Nel momento in cui scriviamo non sono ancora noti i vincitori ma in generale la ricetta di Amadeus (nella foto qui a lato con Fiorella Mannoia) nei panni del buon padre di famiglia della TV pubblica ha funzionato: unire le generazioni con artisti navigati (Ricchi e Poveri, Loredana Berté), attesi ritorni e debutti (Alessandra Amoroso, Negramaro, Annalisa, Fiorella Mannoia), passati vincitori (Mahmood, Il Volo, Renga, Diodato, Emma), giovani di successo pescati dalle classifiche o emersi dai talent (Geolier, Ghali, Sangiovanni, Santi Francesi, Irama) e qualche nuovo volto (Rose Villain, Clara, Big Mama, La Sad, Bnkr44). Oltre al disturbatore Fiorello, è stata sapiente pure la scelta di ospiti e super-ospiti. Il più gradito di questa edizione? Giovanni Allevi, tornato al pianoforte dopo la malattia e accolto da un lunghissimo e affettuoso applauso. Nel corso della prima serata Marco Mengoni ha rubato la scena alla gara con il suo medley, ma i suoi siparietti comici sono apparsi un po’ forzati.

Giorgia, mattatrice nella seconda serata (nella foto in basso), non solo si è trovata a suo agio a ripresentare i suoi pezzi storici, ma ha dimostrato di avere un futuro come possibile conduttrice della kermesse: debuttò a Sanremo 30 anni fa, ma per lei gli anni non sembrano passati. Malamente sprecata invece la comparsata di John Travolta, a quanto pare strapagato grazie ai soldi di uno sponsor, ma costretto a un siparietto imbarazzante non tanto per lui, ma per chi l’ha ideato. Il suo Ballo del Qua Qua con Amadeus e Fiorello è stato, come dicono i giovani d’oggi, uno dei momenti «cringe» del Festival. Per il resto, come da programma, le provocazioni ci sono state ma erano addomesticate, i look ci sono sembrati esagerati ma non sfacciati, le trasgressioni non hanno superato la linea rossa del politically correct, la musica è stata servita come un buffet all you can eat che non ha scontentato nessuno. Gli anziani si sono dimostrati grintosi, «pazzi» e pimpanti come i Ricchi e Poveri e la vulcanica Loredana Berté, i giovani invece fragili, capaci di chiedere aiuto come hanno fatto vedere Il Tre, Big Mama e i La Sad (non chiamateli punk, per favore). Quasi tutti gli altri hanno parlato, ovviamente, di amori: intensi, sofferti, indimenticabili come solo quelli delle canzoni sanno essere. «Sembriamo due panda, amore mio» dice la canzone dell’artista indie romano Gazzelle che è sempre difficile distinguere nel look da Liam Gallagher degli Oasis. «Cadi dal cielo come un capolavoro» recita il brano del trio Il Volo. «Bastasse solo una stupida canzone per riuscire a riportarti da me» auspica Irama. «Ma abbracciami che è normale. Stringerti forte è spettacolare. Come l’amore il primo giorno d’estate» replica il giovane debuttante Mannini che non vuole rimanere a corto di similitudini. Cantano l’amore anche Francesco Renga e Nek, trovando anche un risvolto contabile: «Lo trovi in tasca, ma non lo puoi spendere».

Fortunamemte non sono mancate le eccezioni a questo eccesso di sentimento. Fiorella Mannoia con Mariposa ha celebrato la forza femminile in un inno che sa di Sudamerica. Dargen D’Amico ha dedicato la sua Onda alta ai migranti. In entrambe le canzoni c’è lo zampino di Alfredo Rapetti detto «Cheope», il figlio di Mogol. Ghali dialoga con un immaginario alieno in Casa mia. Mahmood con Tuta Gold è sempre più abile a utilizzare nei suoi brani un linguaggio di una nuova generazione di ragazzi italiani e torna su temi a lui cari come l’identità, il rapporto sofferto con il padre e il suo sentirsi diverso. Ma le canzoni sanremesi ormai guardano solo in parte alla competizione, l’orizzonte è diventato un altro. La melodia non è scomparsa, ma i ritornelli ballabili (The Kolors, Alfa, Fred Di Palma, Angelina Mango, Annalisa, Ghali,…) puntano già a diventare tormentoni, dominare le playlist dell’estate e impazzare sui social. I veri vincitori si scopriranno fra qualche mese, non sul palco tutto effetti luminosi del Teatro Ariston, ma sulle spiagge. L’estate italiana inizia a febbraio. Anche questo è il cambiamento climatico.

Ma una volta com’era?

Quando inizia il Festival di Sanremo, l’Italia si divide in due: quelli che lo amano ma non hanno il coraggio di dirlo e chi lo odia ma non ha la forza di disinteressarsene. Chi lo ama e lo segue per passione troverà sempre qualcosa che lo delude, chi lo odia e non riesce a ignorarlo scopre sempre qualcosa che lo incuriosisce.

Il primo Festival della Canzone Italiana si svolse nel Teatro del Casinò di Sanremo nel gennaio 1951. Inutile cercarne traccia sulla stampa dell’epoca. L’evento venne ignorato e ritenuto una manifestazione locale, anche se fu trasmesso via radio a tarda sera. I giornalisti iniziarono a comparire alla seconda edizione e l’evento diventò popolare grazie al successo ottenuto dalle canzoni vincenti. La prima edizione a essere trasmessa sulla televisione nazionale fu quella del 1955, vinta dal duo Claudio Villa e Tullio Pane. Da allora la storia della manifestazione è stata avventurosa e imprevedibile. La musica è stata non di rado solo un contorno a uno spettacolo che aveva implicazioni anche sociali e politiche.

Un evento cardine fu il suicidio del cantautore Luigi Tenco che si tolse la vita all’Hotel Savoy nel 1967 dopo l’eliminazione del suo brano dalla gara del Festival. Un gesto estremo, ma che a tutt’oggi appare come un tragico, anche se incomprensibile, atto di protesta, di rottura generazionale e di ribellione contro un mondo che non voleva aprirsi al nuovo. Le altre provocazioni furono per fortuna assai meno drammatiche. Nel 1980 Roberto Benigni inaugurò un nuovo decennio chiamando Papa Giovanni Paolo II «woitilaccio» e baciando appassionatamente sulla bocca la co-conduttrice Olimpia Carlisi. Gesti che anche oggi farebbero scalpore. Nel 1995 nella galleria del Teatro Ariston un uomo minacciò di lanciarsi nel vuoto dalla balconata. Il conduttore Pippo Baudo interruppe lo spettacolo ma non la diretta, intervenne di persona per risolvere la situazione. Un gesto eroico e così ben documentato che a tutt’oggi per molti fu studiato a tavolino. Nel 2020 il duo Bugo-Morgan litigò sul palco. Morgan cambiò il testo del brano per criticare il suo compagno, che lasciò la scena. Non vinsero premi, ma divennero eroi involontari della satira sui social.

Spesso il palco sanremese è stato il lasciapassare per un successo internazionale. È accaduto per Ramazzotti, Pausini, Bocelli, Måneskin, ma anche per Luis Miguel, ragazzo prodigio italo-spagnolo che si presentò al Festival nel 1985 diventando poi la più grande star della musica latino-americana. Se alcune canzoni vittoriose sono state dimenticate, a volte il successo ha arriso a brani che la kermesse aveva ignorato come Vita Spericolata di Vasco Rossi, Donne di Zucchero o Mentre tutto scorre dei Negramaro. L’elenco degli illustri non-vincitori è portentoso: Battisti, Mina, Dalla, Renato Zero, Rino Gaetano, Max Pezzali… Un ricordo speciale meritano gli ospiti stranieri che non sono mai mancati. Nel 1966 la storica rockband inglese degli Yardbirs, con Jeff Beck alla chitarra, venne presentata da Mike Buongiorno come i «Gallinacci». Nel 1968 il grande Louis Armstrong, un mito vivente, venne introdotto al pubblico come «Amstrong» e cantò il brano Mi va di cantare, l’italiano era stentato, ma la sua verve era inimitabile. L’anno dopo toccò alla nuova promessa della black-music, il diciottenne Stevie Wonder. Ai tempi si usava affiancare un artista italiano a un interprete straniero. L’accoppiamento venne ripetuto poi in diverse occasioni.

Nel 1990 Ray Charles venne abbinato a Toto Cotugno. La vittoria sfuggì per un soffio, ma non fu difficile notare come la stessa canzone, Gli amori, nell’interpretazione del grande Ray era ben diversa rispetto alla versione italiana. Nel 1983 Peter Gabriel presentò la hit Shock the Monkey. Era la stagione delle esibizioni in playback. Gabriel compensò il mancato sforzo vocale saltando sul palco come il primate del titolo della sua canzone. Si fece calare anche una corda con cui penzolò, come Tarzan su una liana, sulle prime file dell’Ariston sopra gli spettatori che sembravano pronti a scappare. Poi ripiombò pesantemente sul palco abbattendo una cassa audio e rischiando di travolgere gli arredi floreali. Le attrezzature però avranno la peggio nel 2001 quando il leader dei Placebo Brian Molko sfasciò la sua chitarra contro la testata di un amplificatore. Il pubblico non apprezzò la citazione degli Who e piovvero fischi. I fiori non sono sopravvissuti, l’anno scorso, all’ira di Blanco che, dopo aver avuto problemi tecnici, si è sfogato contro gli innocui bouquet decorativi.

Nel 1984 ecco i Queen, al loro debutto in Italia. Introdotti da Beppe Grillo, cantarono Radio Ga Ga, ma anche in questa occasione fu obbligatorio il playback. Audio registrato anche per l’esibizione dei due Led Zeppelin Jimmy Page e Robert Plant del ’98, che infatti Plant concluse con un plateale sbadiglio. Altri grandi artisti saliti sul palco dell’Ariston sono stati Whitney Houston che, senza playback, stregò il pubblico nel 1987 con la sua indimenticabile voce. Bruce Springsteen si presentò in versione acustica nel ’96 e, visto il tono dimesso e impegnato della canzone (The Ghost of Tom Joad) impose alla regia inquadrature sobrie e una luce fissa sul palco. L’ospite meno gradito fu forse il cantante della ska-band inglese Bad Manners nel 1981: si calò i pantaloni, ballando in mutande e salutando il pubblico con un gesto esibizionista che gli inglesi chiamano «mooning». Esibizionismo involontario quello della cantante londinese Patsy Kensit a cui si ruppe una spallina dell’abito, lasciando intravedere un seno. Per giorni in Italia non si parlò di altro. Era il 1987, i tempi sono cambiati, ma Sanremo è forse rimasto uguale.