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Protagonisti di un immaginario dell’altrove

Invalicabili muraglie di alberi, un caos primordiale irriducibile a qualsiasi logica umana. Non c’è da stupirsi se il Rio delle Amazzoni è diventato «il luogo» dell’immaginario occidentale dell’altrove che, nei secoli, ha avuto numerosi protagonisti. Il conquistador Francisco de Orellana fu il primo europeo a scendere il Rio delle Amazzoni raggiungendo la foce il 24 agosto 1542, mentre un altro conquistador, Lope de Aguirre soprannominato El Loco (il pazzo), anche se lui preferiva «La collera di Dio, il Principe della libertà», durante una spedizione in cerca del mitico El Dorado, nel 1561, dichiarò guerra a Filippo II per rovesciare il governo spagnolo in Perù. Finì con la sua morte, ma si guadagnò un ruolo di antieroe maledetto nella letteratura e nel cinema.

Al cronista Gaspar de Carvajal si deve invece il nome Rio delle Amazzoni perché raccontò di una battaglia tra spagnoli e una tribù in cui le donne combattevano insieme agli uomini. Tra gli scienziati, il francese Charles de la Condamine, tra il 1743 e il 1744, realizzò la prima vera esplorazione dell’Amazzonia riportando in Europa esemplari di caucciù, chinino e curaro. L’esploratore, naturalista e geografo Alexander von Humboldt, nel 1880, percorse 2775 chilometri di territori inesplorati dimostrando l’esistenza del canale naturale Casiquiare che collegava i due bacini del fiume Orinoco e del Rio Negro.

L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss nel 1938 entrò in contatto con tribù ancora isolate. Jules Verne trasformò il romanzo poliziesco La Jangada, ottocento leghe sul Rio delle Amazzoni in una scoperta dell’esotico, e Arthur Conan Doyle scrisse Il Mondo Perduto, uno dei più famosi romanzi avventurosi del diciannovesimo secolo popolato di dinosauri sopravvissuti all’estinzione. Indimenticabile per l’immaginario collettivo Carlos Fermín Fitzcarrald López, protagonista dell’omonimo film del regista tedesco Herzog, che aveva già realizzato Aguirre, furore di Dio, l’epopea di un barone della gomma che obbligò i nativi a trasportare un battello fluviale attraverso le montagne per raggiungere il fiume Madre de Dios, e morire a 35 anni nel naufragio del suo battello Contamana.

Persino l’ex-presidente americano Theodore Roosevelt si cimentò in una spedizione amazzonica lasciando il suo nome a un fiume. Un altro personaggio leggendario, il geografo ed esploratore inglese Percy Harrison Fawcett, scomparve con i suoi compagni senza lasciare tracce nel 1925 mentre cercava una città perduta, un mistero mai definitivamente risolto.


Tra le anse lattiginose dell'Amazzonia, scivola l’arca del rio Ucayali

Reportage - Alloggiati all’interno del ventre di ferro del Tucàn, ricolmo di amache dondolanti, oltrepassiamo città western in salsa tropicale all’ombra di folte fronde della selva amazzonica immerse in mitologiche storie
/ 12/02/2024
Enrico Martino, testo e foto 

Il duetto tra El Tucan e La Tucanesa va in scena in un’alba scura velata da un muro di pioggia che trasfigura la selva amazzonica in una stampa giapponese. I due battelli si sfiorano in una sorta di danza amorosa a colpi di sirena e manovre apparentemente insensate. Poi ognuno riparte per la sua strada scivolando tra le anse lattiginose del rio Ucayali, un gigantesco anaconda d’acqua che dalle Ande si srotola a valle per millecinquecento chilometri fino a impastarsi con le acque del Marañon per creare il fiume più lungo del mondo, il Rio delle Amazzoni.

Un luogo del mito come nessun altro, patria delle famose femmine guerriere, da cui il nome, e del regno fantastico di El Dorado, ultimo capitolo di una Genesi ancora in progress, un minaccioso Paradiso perduto ormai ridotto a una terra di nessuno di anse, spiagge, fango e alberi morti fino a Iquitos, capitale dell’Amazzonia peruviana. I suoi quattrocentomila abitanti sono collegati al resto del mondo solo da aerei e una flotta di ferrivecchi come El Tucàn, impegnati a conquistarsi merci e passeggeri a base di colpi bassi.

«Fino a Requena è la nostra zona ma a valle la concorrenza è aperta. Guarda quella chiatta stracarica, sono rateros, ladri che trasportano pesce congelato di contrabbando» puntualizza con calvinistica integrità Damaso, el capitan. D’altronde anche El Tucàn «carica di tutto, merci e passeggeri» proclama uno sgangherato altoparlante piazzato in cima a una pertica nel porto di Pucallpa, dove finisce la strada che scavalca le Ande collegando a Lima questa porta d’ingresso all’Amazzonia, come una città western in salsa tropicale.

I suoi dubbi commerci si svolgono davanti ai placidi sguardi degli ufficiali della capitaneria: da una parte, le pelli di coccodrilli teoricamente protetti da convenzioni internazionali che seccano sul tetto di un battello mentre da un altro lato provengono i disperati lamenti di animali preda del commercio illegale. Carovane di scaricatori arrancano dribblando furgoni e ruspe in precario equilibrio su un ripido pendio di fango che, in teoria, sarebbe la banchina; qui sono le piene a cambiare i connotati di un porto che si muove, sale e scende da un anno all’altro. Sono loro a decidere le partenze di decine di battelli annunciate dalla radio del porto, invariabilmente imminenti ma con l’ambigua avvertenza «a partire da…». Per chi se ne intende, significa che salperanno solo quando saranno stracarichi e la linea di galleggiamento sprofonderà nell’acqua fangosa del fiume.

Ce ne sono di ogni età e dimensione, brillanti di vernice fresca o mangiati da decenni di piogge e incrostati di fango. Anche il costo del biglietto dipende dalla capacità di trattare, e dal bisogno di contante del capitàn. A ogni ora del giorno e della notte una folla rassegnata aspetta di imbarcarsi in uno scenario da ruvida frontiera conradiana, che sgomenta i rari birdwatchers di passaggio diretti verso qualche riserva naturale.

Dal Porto Pucallpa

È uno strano posto Pucallpa. La prima volta mi sono chiesto perché ci ero finito, poi però sono tornato, attratto dall’irresistibile lusso di giocare con il tempo di un viaggio che non si sa quando inizia e ancora meno quando finisce. Così mi sono ritrovato nel ventre di ferro del Tucàn insieme a un’umanità che aspetta in un’incertezza fuori dal tempo. Nel prezzo del biglietto è compreso anche il cibo e nessuno si può permettere un letto in una casa de huespedes, le povere pensioni sparse in città. Il segreto è appendere l’amaca nel punto giusto di questo hangar di ferro arroventato dal sole e impregnato di umidità dell’Amazzonia dove ci si ammucchia per giorni uno sull’altro, per sopravvivere al caldo e agli insetti in una bolgia infernale di amache dondolanti sopra bambini, polli ignari del loro destino e briciole di consumismo elettronico.

La prima sera, subito dopo essere salpati, due energumeni armati hanno bloccato i boccaporti e sono scesi a controllare i biglietti, poi è iniziata la surreale convivenza di una comunità di estranei in un’Arca di Noè dove si mangia, si commercia, nascono e muoiono improbabili amori, aspettando Iquitos, che sarà raggiunto quando nessuno lo sa, neanche l’equipaggio perché «si arriva quando si arriva» e il tempo è l’unica merce che abbonda. Nel frattempo, ognuno racconta le proprie storie nello spagnolo cantilenato della selva.

C’è chi va a salutare un parente che vive a centinaia di chilometri di distanza, e chi affronta settimane di viaggio sperando di raccattare qualche soldo come Lucio, un indigeno shipivo, «se non li trovo in fretta non posso iscrivermi a scuola, non abbiamo niente e dobbiamo mendicare anche il cibo; noi siamo una famiglia di agricoltori poveri e negli anni di siccità non abbiamo neanche da mangiare. Mi vergogno di doverle chiedere questi soldi».

Saccheggiatori di mogano

«Ci hanno rovinato le leggi per la protezione del mogano» ringhia invece José guardando le rive del fiume ridotte a una steppa da cui emergono solo alberi solitari. «Ormai per trovare il mogano bisogna risalire in lancia per giorni i piccoli affluenti del Rio Ucayali. Prima lavoravo per un ministero ma adesso mi occupo di commercio», aggiunge sorvolando pudicamente sul fatto che in realtà è un contrabbandiere di legname pregiato. «Esportavamo molto negli Stati Uniti ma adesso siamo costretti a utilizzare legni meno pregiati che hanno bisogno di essiccatori molto costosi perché patiscono umidità e funghi parassiti» così quelli come lui per denaro o per disperazione continuano a saccheggiare quello che resta della foresta pluviale.

Fuori è buio pesto e il Tucàn avanza al rallentatore in una nebbia di ovatta nera mentre il precario faro del capitàn cerca gli invisibili banchi di sabbia che possono farci affondare da un momento all’altro e il ron-ron del diesel è interrotto solo dal tonfo sordo di un tronco sommerso o di qualche caimano disturbato dal passaggio del battello. A ogni ansa o barca insolita la gente guarda fuori inquieta, per non parlare dei momenti in cui il Tucàn sembra tirare le cuoia con gemiti da moribondo. Allora accosta a riva e il meccanico si immerge in un mare di fango con un’enorme chiave inglese per riemergere come un Nettuno dopo aver dato mazzate tremende a un pezzo dell’elica.

Dalle casse di banane ai pirati

La più preoccupata è doña Dolly, l’armatrice, perché se il battello va veloce lei può risparmiare sul cibo, per non parlare della concorrenza che potrebbe approfittarne, «ma ci vuole altro per fermarci. Con mio marito abbiamo cominciato trasportando a spalle per anni banane, riso, mais, sacchi e sacchi di mercanzia. Spesso siamo stati anche assaltati dai pirati del fiume però siamo andati avanti». Su che cosa potessero contenere quei sacchi forse è meglio sorvolare, lungo questa via d’acqua che collega le coltivazioni di droga peruviane lungo il rio Huallaga a Leticia, per anni una famigerata Tangeri colombiana sul Rio delle Amazzoni. Un luogo di commerci apparentemente irresistibili anche per il señor Manuel che mi confida di affrontare un viaggio di tre settimane sul fiume per andare laggiù a vendere un carico di cipolle che «in Colombia pagano un po’ di più».

«Niente delitti, niente morti, nada de nada. I villaggi lungo il fiume sembrano oasi felici» sorride sarcastico un giornalista locale che tutti chiamano El Chino per i suoi occhi a mandorla. «In uno dei rari casi in cui è trapelata la notizia di un omicidio nel paese di Contamana sai come è finita? Due membri della commissione d’inchiesta sono desaparecidos, volatilizzati nulla. In realtà girano tutti armati fino ai denti e un paio di volte hanno trovato persone tagliate a pezzi perché questa è una zona di produzione della pasta di coca. I narcos controllano il corso dell’Ucayali tra Contamana e Requeña, basta che ti allontani un centinaio di metri dal fiume e le coltivazioni di mais e fagioli sono sostituite da altre molto più redditizie, però neanche i giornali locali si azzardano a parlarne. Così va il mondo qui, caro mio, e se vuoi vivere tranquillo è meglio lasciar perdere».

Forse proprio per esorcizzare questo mondo inafferrabile, gommoso come la selva impregnata di neblina, il Tucàn di giorno si trasforma in una surreale discoteca dove cumbias e technosalsas hanno sostituito la gracchiante voce di Caruso che il Fitzcarraldo-Klaus Kinskji di un film cult di Herzog riversava su piroghe cariche di indios attoniti. Oggi invece il Tucàn è il sogno tropicale delle ragazzine dei pueblos perduti lungo il fiume disposte ad aspettare per ore a bocca aperta il suo passaggio sotto muri di pioggia, sognando di andare almeno una volta nella vita a Iquitos.

Tra galli, chanchos e maiali

Un concerto infernale annuncia l’ultimo giorno tra chicchirichì di galli, urla disperate dei chanchos, i maiali impilati nella stiva, trilli di sveglie cinesi e languide canzoni cubane mentre le prime luci del sole sfondano la nebbia e l’Ucayali si unisce al Marañon sciogliendosi nell’immensità del Rio delle Amazzoni.

Dopo quasi una settimana, quando cominci a chiederti se Iquitos esiste sul serio, la piccola Manaus peruviana si materializza alla fine di un’ultima interminabile ansa con lo sterminato quartiere di palafitte dall’improbabile nome di Belèm (Betlemme), una sgangherata Venezia amazzonica per cercatori di esotico e un allucinante esempio di degrado per gli urbanisti. Per il premio Nobel Mario Vargas Llosa invece era lo scenario perfetto per Pantaleon e le visitatrici, irresistibile satira in stile militar-burocratico sulle vicissitudini di un irreprensibile capitano dell’esercito che ha ricevuto l’ordine di realizzare bordelli naviganti per alleviare le solitudini delle guarnigioni isolate nella selva.

Probabilmente Iquitos è tutto questo con il suo inestricabile groviglio di contraddizioni, perfetto punto di gravità permanente di una geografia perennemente in progress che il fiume disfa e ricostruisce senza sosta. Indifferente agli uomini e al loro agitarsi convulso.