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I primi quattro articoli sono usciti su «Azione» del 17 gennaio, del 9 maggio del 2022, del 25 settembre 2023 e 15 gennaio 2024.


L’immagine parla solo se ha voce

Un visibile narrare - Meglio sarebbe andare oltre la tentazione di scrivere o produrre fotografie come quelle che un lettore o un fruitore di scatti vorrebbe leggere o guardare
/ 12/02/2024
Manuela Mazzi

Mentre la redazione attendeva uno dei suoi primissimi articoli da reporter di guerra, Ettore Mo, inviato speciale del «Corriere della Sera» (ma anche nostro collaboratore per tanti anni), aveva telefonato al caporedattore spiegando sconsolato di non aver niente da scrivere, dato che là, in mezzo al conflitto, dove era stato mandato, in verità, non era ancora capitato niente dal suo arrivo. Tutto quello che aveva visto, gli disse, era lo sguardo di un bambino che aveva lo spavento in volto e stava aggrappato al collo di sua madre fasciata da stoffe scure, un pupo che non pareva nemmeno cercare rifugio, giacché c’erano solo macerie (diciamo che è questa l’immagine del suo racconto da noi ricordata).

Era giovane, Ettore Mo che, nato nel 1932, ci ha lasciati l’anno scorso, a ottobre. Cercava una notizia forte, di quelle drammatiche, di quelle che tutti ci aspettiamo di riceve da un inviato di guerra: fucili fumanti ed esplosioni, oltre al sempre grigioverde bollettino dei morti. Incredibilmente, a quel punto, il caporedattore gli disse, «ok, e dunque scrivi di questo! Aspetto il pezzo fra un’ora». Dal racconto di Ettore Mo si comprende che fu quello il momento in cui imparò a fermarsi a osservare il proprio sguardo permettendogli di parlare senza pregiudizi, dando voce a quel che era, non a quel che cercava o che credeva dovesse essere.

Vale anche per le immagini. Tornando alla guerra, proprio di recente, abbiamo avuto modo di vederne anche di quelle più cruente. Ne abbiamo descritta una, altrove, che qui riportiamo. Si tratta di un’immagine che a noi costa ancora fatica descrivere senza farci contorcere le viscere, senza sentire male nell’anima, senza intuire un dolore interno, al cervello, mentre osserviamo le fiamme che stanno sullo sfondo a lambire un immobile già in macerie. Niente di nuovo, ci siamo abituati, ormai (perché la retorica della guerra non si discosta dal nostro immaginario). Alle carcasse delle auto ridotte in scheletri neri di ferro carbonizzato, pure. Il militare in grigioverde, chi ci fa più caso? Sorprende già di più il soldato a torso nudo che sta in secondo piano, ed è ciò che attira, creando la trappola, dato che a quel punto, si entra nel raggio di percezione dello sguardo periferico. E là, a terra, il corpo di un uomo. Un cadavere. E siam qui a far fatica a dirlo. Perché dicendolo, ci costringiamo nostro malgrado a entrare a far parte della spettacolarizzazione del male (sul quale torneremo anche in un prossimo articolo di «Un visibile narrare»). Una lotta a un «malandazzo» retorico, combattuta con la stessa iperbole drammatica. E pertanto ci scusiamo, certi che violentare la mente di un lettore, non salverà tanti uomini e donne e bambini che vengono trivellati (altra spettacolarizzazione: ci scusiamo di nuovo).

Immagini che parlano però senza ormai più indignare nessuno, data l’assuefazione alle stesse: immagini che hanno perso voce, pur avendo in verità molto da dire. È questa forse una delle ragioni per cui è importante cercare di non scrivere quel che si pensa che gli altri, cioè i lettori, vorrebbero leggere o si aspetterebbero di vedere in un’immagine di guerra, perché farlo significherebbe perdere l’occasione di scrivere, o di dire, o più semplicemente di lasciar libera la propria voce autoriale, i propri pensieri. Un conto è scrivere (o fotografare) «per un lettore», un altro è scrivere (o fotografare) «quello che vorrebbe il lettore».

Si dice che la voce autoriale sia un misto tra sguardo sul mondo e scelta stilistica, più il primo che il secondo. «Si dice» nel senso che abbiamo provato ad ascoltare quel che ne dicono editor e autori e fotografi, e pare che ognuno abbia la propria opinione, non sempre concordante con quella degli altri.

La parola «voce» rimanda a un suono. E, sì, se letto o descritto ad «alta voce», un suono ce l’ha qualsiasi testo o immagine, ma è evidente che di questo non si tratta quando si parla di voce autoriale. Intendiamoci, non che una voce non possa essere anche «musicale», ma qui si intende in modo diverso. Una voce, o uno sguardo d’autore, ce l’hanno anche i bravi fotografi. E pure possono averla persino gli oggetti, le cose inanimate, soprattutto le cose d’arte; non poche volte si dice che un’opera deve parlare per arrivare a chi la osserva, non di meno può farlo per l’appunto un’immagine, o una fotografia…

Voci che parlano, dunque, senza suono. È in fondo questo il modo in cui un’opera dialoga (o mette in dialogo l’autore) con il lettore, lo spettatore, il visitatore, l’«ascoltatore». E lo fanno, cioè «parlano», attraverso lo «sguardo» di chi le realizza (e forse anche attraverso quello di che ne fruisce, ma si tratta di altro tema).

Due, normalmente, i modi di posare lo sguardo sul mondo (sì, taglio a fette grossolane): un modo concettuale (che cosa pensa l’autore, il fotografo, o meglio il narratore, di un tema, un fatto, una terra, un sentimento…) e un modo materico (quale inquadratura, quale punto di vista, quale angolazione, quale luce, quale prospettiva, si sceglie per mostrare, descrivere, far parlare una scena, un’immagine, una narrazione). C’è, ovviamente, anche un terzo modo, quello casuale, che non ha però voce pur mostrando qualcosa, o che persino non mostra nulla come nel caso della scrittura che si soffermi più sulle emozioni che non su cose concrete.

Una scena in effetti può essere vista e mostrata in (tantissimi) modi diversi, rispondendo a una sensibilità più comunitaria, condivisibile, o a una «singolare», individuale, suggerita da chi «parla». Un altro modo, insomma, che non può essere insegnato davvero. Non lo sguardo, al massimo crediamo si possa suggerire una posa per riuscire a trovare il proprio modo di dire le cose, di osservarle.

Forse, un modo per riuscire a trovare una propria voce sta nel dimenticare tutto ciò che si è imparato (e nel frattempo interiorizzato, altrimenti non ci si può permettere di «non pensarci più»). Ma potremmo anche spingerci oltre. Forse una buona cosa sarebbe «dimenticare» anche noi stessi, cioè «scomparire» per metterci al servizio dell’opera, dell’immagine, della storia, dell’articolo di giornale.

Nel prossimo approfondimento proveremo a spiegare in che senso.