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La semplice lezione di vita di Hirayama
Cinema ◆ Wim Wenders ci incanta in sala con il suo capolavoro Perfect Days
Nicola Mazzi
Alla fine della proiezione, mentre uscivo dalla sala cinematografica, mi è venuta una gran voglia di prendere il primo aereo e andare a pulire i bagni pubblici di Tokyo. E questo è già un indizio di che esperienza sia stata la visione di Perfect Days.
Il film di Wim Wenders (che ha ottenuto la Palma per il miglior interprete maschile all’ultimo Festival di Cannes) è probabilmente, oso affermarlo conoscendo e apprezzando la sua filmografia, uno dei suoi capolavori, paragonabile a Il cielo sopra Berlino.
Eppure, l’opera è semplice, costruita in modo schematico e basando la narrazione sulla ripetizione dei gesti quotidiani. Ed è stata realizzata dallo stesso autore tedesco in soli 17 giorni, con un budget limitato e una sceneggiatura scritta in modo magistrale ed essenziale con Takuma Takasaki. Una semplicità che è però solo apparente e nasconde in sé una stratificazione che trascina in profondità lo spettatore, attraverso mille emozioni e altrettanti stati d’animo, un passato complicato e relazioni mai chiarite fino in fondo. Insomma, un mondo sommerso che si intuisce da piccoli gesti, qualche parola e soprattutto da uno sguardo, splendido, finale, sul quale diremo in seguito.
La trama, come detto, è essenziale. Hirayama è un sessantenne che pulisce i bagni pubblici di Tokyo con attenzione meticolosa ai dettagli e una dedizione incredibile per il suo lavoro; munito di spazzolini e specchietti per scovare ogni minima macchia o granello di polvere. Ogni giorno lo osserviamo mentre ripete gli stessi gesti, in una routine che parte dalla pulizia dei bagni pubblici per arrivare, a fine turno, a un bagno rilassante, passando per la cura di alcune piantine che fa crescere, o per un panino gustato nello stesso parchetto. Gesti ripetuti che prevedono anche una bibita presa da un distributore automatico, una cassetta (come negli anni Novanta) messa nel mangianastri mentre va al lavoro, o una cena in una tavola calda di una stazione della metro.
Un film nato su basi diverse e particolari che si sono poi trasformate. Ed è lo stesso regista a spiegarlo. Infatti, all’epoca gli avevano chiesto: «Saresti interessato a girare una serie di cortometraggi a Tokyo, magari 4 o 5, di circa 15-20 minuti ciascuno? Questi film tratterebbero di uno straordinario progetto sociale pubblico, coinvolgerebbero il lavoro di grandi architetti. A me non piaceva l’idea di una serie di cortometraggi. Quella non è la mia lingua. Invece di girare 4 volte in 4 giorni, ho risposto, perché non girare un vero film? Cosa ci fate con 4 cortometraggi? Immaginate, invece, avere un solo lungometraggio! La risposta è stata: adoriamo la tua idea». E così è stato.
Perfect Days è anzitutto un atto d’amore per una città che ha iniziato a conoscere negli anni ’70 grazie anche ai film di Yasujiro Ozu, da lui considerato il suo maestro. Riferimento che riconosciamo – oltre che nella estrema pulizia formale delle scene (anche la scelta del formato 4/3 non è casuale), così come nell’amore per la cultura americana – soprattutto nel rapporto familiare e intergenerazionale tra il protagonista e la giovane nipote (nella foto), la quale, scappata di casa, si rifugia dallo zio e lo segue nel lavoro quotidiano. Lo stesso dicasi per la relazione con il giovane collega di lavoro Takashi che vive alla giornata, non è attaccato al lavoro ed è alla perenne ricerca di soldi. Proprio come nei film di Ozu, Wenders fa interagire le varie generazioni per approfondire i mutamenti sociali in atto.
Inoltre, malgrado l’apparenza, non è un’opera monotona né noiosa, perché il regista riesce a creare una grande tensione narrativa senza scendere a compromessi di trama né inventare scene a effetto. La rarefazione degli elementi presenti e la routine giornaliera di Hirayama fanno sì che ogni piccolo dettaglio sia importante. Soprattutto ogni cambiamento, nella sua vita, assume proporzioni fondamentali. E lo spettatore, abituato ai rituali quotidiani del protagonista, attende attento e concentrato di sapere come sarà il giorno seguente e quali piccoli fatti muteranno leggermente la sua giornata.
L’ultimo sguardo, si diceva all’inizio dell’articolo. Nella scena finale osserviamo il protagonista che guarda in camera, ci interroga direttamente per diversi secondi, forse minuti. Una scelta formale, che nonostante non sia nuova nella storia del cinema, mantiene sempre un valore emotivo molto potente. La ricordiamo, per esempio, ne I quattrocento colpi di François Truffaut (quando il film termina su un fotogramma del giovane Antoine che guarda in camera), ma soprattutto ne Il laureato di Mike Nichols (con Ben ed Elaine che scappano dal matrimonio su un bus di linea e guardano in camera). Ecco, nel suo sguardo che passa dal sorriso alla commozione, c’è tutto: una vita intera. Il suo doloroso passato, il presente sereno e anche l’incognita del futuro (esattamente come nei film citati).
Alla fine della visione mi era venuta voglia di andare a pulire i bagni a Tokyo. Anche perché sono sempre impeccabili, forse per l’estremo rispetto che i giapponesi hanno per la cosa pubblica o forse perché c’è appena passato Hirayama con i suoi specchietti, i suoi spazzolini e la tuta blu con la scritta «Tokyo Toilet».