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La bellezza del dare dignità alle debolezze

Soletta  ◆  Incontro con la regista Carmen Jaquier che alle Giornate del cinema ha presentato Les paradis de Diane
/ 29/01/2024
Giorgia Del Don

Per l’apertura della loro cinquantanovesima edizione, le Giornate di Soletta – firmate da Niccolò Castelli e Monica Rosenberg – hanno regalato al pubblico un film intenso e coraggioso che libera la parola su un argomento molto delicato, quello della maternità e più in particolare del suo rifiuto. Les paradis de Diane, opera bicefala di Carmen Jaquier, tra le registe svizzere più intriganti della sua generazione, autrice del lungometraggio Foudre e Jan Gassmann, regista del provocante 99 Moons, è uno di quei film che non ha paura di scuotere gli spettatori confrontandoli con tematiche scomode di grande attualità.

Al centro della storia c’è Diane, una giovane donna che fa una scelta per molti incomprensibile, mostruosa, di cui non si vorrebbe nemmeno sentire parlare, ossia quella di abbandonare, dall’oggi al domani, il suo compagno e la figlia appena nata.

Quella raccontata dal duo di registi è la storia di una donna che fugge dal ruolo sociale a lei assegnato perché non corrisponde ai suoi desideri profondi. Per Diane, fuggire non è una scelta ponderata, maturata con il tempo, ma frutto di una folgorazione, la consapevolezza improvvisa e brutale di non poter aderire a un immaginario collettivo, quello della donna-madre, che ancora oggi è difficile rendere materia di discussione.

«Ascoltandola, ho scoperto che la maternità poteva essere qualcosa di più oscuro rispetto a quello che mi immaginavo»

Come confidato dalla regista che abbiamo avuto il piacere di incontrare a Soletta insieme a Jan Gassmann e all’attrice principale del film Dorothée de Koon (nella foto), il suo bisogno di interrogare l’immagine idilliaca della maternità, il bisogno di decostruire questo stesso concetto arricchendolo con una molteplicità di punti di vista, nasce dalla confessione di un’amica che si è confrontata con una depressione post parto tenendola nascosta. «Ascoltandola, ho scoperto che la maternità poteva essere qualcosa di più oscuro rispetto a quello che mi immaginavo». Un punto di vista, questo, condiviso da Jan Gassmann che aggiunge: «Gli uomini sono forse ancora di più legati a questa immagine della donna-madre perché è rassicurante».

Come spiegato dai due registi, quando nel 2016 hanno cominciato a documentarsi per il film, non è stato facile trovare dei saggi che riflettessero sulla questione. Regretting Motherhood di Orna Donath, uscito nel 2015, è stato il punto di partenza delle loro riflessioni arricchite da discussioni con chi ha vissuto l’esperienza della maternità sulla propria pelle. Ascoltandole con attenzione, senza giudicare, si sono resi conti di quanto fosse difficile per queste persone esprimere i sentimenti negativi che, inevitabilmente, emergono con la nascita di un bambino. «Ci siamo confrontati con la collera – dice Jan Gassmann – con le emozioni intime e inesprimibili che queste donne provavano senza osare esprimerle. Farlo avrebbe significato, per loro, ammettere di essere delle cattive persone».

Per la protagonista del film, fuggita dall’ospedale e approdata nella stralunata città di Benidorm, andarsene è l’unica opzione possibile. Liberata dal suo ruolo sociale di compagna e madre, Diane si trasforma in semplice involucro corporeo, anonimo, un corpo stanco, guidato solo dai suoi bisogni primari, ferito ma già proteso a guarire.

Come spiega la regista: «Diane è un personaggio in modalità di sopravvivenza, incapace di prendere decisioni e quando tutto si fa troppo difficile decide di partire. La sua è una fuga per la sopravvivenza. Dorme, mangia, prende le sue medicine, ricostruisce il suo quotidiano giorno dopo giorno in base ai suoi bisogni».

Soddisfare i propri bisogni, esplorare gli angoli più oscuri del proprio essere senza paura di perdersi, è qualcosa che Diane non si è mai concessa di fare. Essere, semplicemente essere, anonima e sola, gli dà una forza che niente potrà più togliergli. Come gli altri esseri feriti e coraggiosi che abitano le strade di Benidorm, la protagonista del film cerca di diventare l’essere umano che vuole davvero essere. Come spiegato molto bene da Carmen Jaquier, «la questione non è quella di avere o non avere figli, ma di riflettere diversamente sulla maternità, anche da un punto di vista filosofico, politico ed estetico».

Attraverso le peregrinazioni di Diana e l’incontro decisivo con una misteriosa signora (interpretata dalla grandiosa Aurore Clément), Rose, che abita all’ultimo piano di un immenso condominio affacciato sul mare, il film ci regala il ritratto di una donna che sceglie volontariamente la solitudine. Ritirandosi dal mondo che ha sempre conosciuto per costruirsi il suo paradiso, o meglio i suoi paradisi personali, lontano dalle costrizioni sociali che hanno troppo a lungo soffocato il suo io profondo, Diane si trasforma nell’eroina della sua stessa vita. La solitudine sociale che sceglie diventa l’elemento centrale del film che caratterizza e plasma i personaggi ai quali i registi sono molto vicini e che hanno ispirato e nutrito il loro immaginario. Fra questi, le protagoniste di Les rendez-vous d’Anna di Chantal Akerman, quelle di Wanda di Barbara Loden e di Wendy and Lucy di Kelly Richard.

«Volevamo raccontare la storia di un personaggio che decide di scomparire – dice la regista – anche se oggi è molto difficile e poi: ha il diritto di farlo? Le persone a lei vicine riusciranno ad accettare la sua scelta, tanto più che si tratta di una neo mamma? La scelta di trattare queste tematiche è stata influenzata anche da film, principalmente degli anni 60 e 70, che ci hanno regalato dei ritratti di donne solitarie. La solitudine sociale per una donna è qualcosa di affascinante e raro, anche semplice il fatto di attraversare sole una città di notte è di per se uno statement. È l’unicità di questi ritratti ad affascinarci».

Sin dal suo primo lungometraggio Foudre, Carmen Jaquier mette in scena personaggi femminili che sfidano le convenzioni sociali alla ricerca di una libertà profonda. L’irruzione di traiettorie vitali «altre» all’interno di un panorama cinematografico che deve ancora essere arricchito con punti di vista minoritari è qualcosa a cui la regista tiene molto: «Sono cresciuta in un contesto molto sessista e ho realizzato solo più tardi quanto ho dovuto lottare per un po’ di dignità. Sento il bisogno di confrontarmi e riconciliarmi con personaggi che mi interessano ma di cui non si parla. Diane è il ritratto di una donna e non quello delle donne, bisogna solo accettare l’esistenza di una moltitudine di possibilità. A volte ho l’impressione che le persone si sentano aggredite da percorsi di vita altri. In realtà esistono molteplici punti di vista che devono poter coabitare ed essere rispettati».

Un’apertura mentale e una sensibilità nei confronti della differenza riscontrate anche in altri film, soprattutto di registi e registe emergenti, presentati alle Giornate di Soletta. Fra questi, l’intrigante e poetico Electric Fields di Lisa Gertsch che, avvalendosi di un potente bianco e nero, svela, con poesia, l’assurdità del reale. Fra i personaggi che mette in scena impossibile non citare la coppia, libera e scanzonata, formata da Sabine Timoteo e Jasmin Mattei. Rinfrescante e toccante è anche il ritratto di Milene, interpretata da Rita Cabaço, una giovane donna con un leggero ritardo mentale, proposto da Jeanne Waltz nel suo Le vent qui souffle dans les grues. Attraverso la narrazione di storie di donne anticonvenzionali, il cinema partecipa alla creazione di paradisi personali, inaspettati e liberi. All’interno della generazione di registi svizzeri di cui Carmen Jaquier e Jan Gassmann fanno parte, si evince il bisogno di esplorare sensazioni e punti di vista che si scostano dai sentieri battuti. Come tanti piccoli falò, simili a quelli che bruciano nel primo film di Michael Karrer Füür Brännt presentato a Soletta, Diane, Rose e Rita ridanno dignità alle debolezze illuminando in modo catartico i lati oscuri che esistono in ognuno di noi.